E se per salvare l’Italia ripartissimo dagli Appennini? Se quella lunga dorsale montuosa, per troppo tempo considerata “quinta inerte e fragile alla dinamica dello sviluppo”, oggi potesse risultare “potente fattore per andare oltre la crisi” dell’intero Paese?
A porsi la domanda non è qualche fanatico delle terre alte, qualche montanaro illuso o romantico, qualche poeta o scrittore con la mania delle aree interne. Finché di questo scriviamo noi – appunto fanatici, illusi, romantici, poeti, gente inascoltata – il rischio è che tutto rientri nella inutilità di appelli che non se li fila nessuno.
Quando, invece, comincia a scriverne uno come Giuseppe De Rita sulla pagina “commenti” del più diffuso quotidiano italiano, forse allora qualcosa di nuovo e di importante può esserci sul serio. E’ di questa seconda domenica di febbraio 2019 il pezzo deritiano (“Le energie da ritrovare nelle politiche anti-crisi”) sul Corriere della Sera.
Avessi un qualche potere – cosa che non ho – cercherei di valutarle bene queste parole del sociologo inventore del Censis: parole che non mancano di autocritica (per decenni – ammette De Rita – gli Appennini sono stati visti come un “osso” assai meno attrattivo rispetto a “polpe” cittadine, costiere, pianeggianti. Come dar torto a questa ammissione? E’ semplicemente vera. Ritrae bene il fenomeno di questo mezzo secolo, e oltre, di sviluppo diseguale con l’intera fascia montuosa interna lasciata a sé stessa, ignorata, abbandonata).
Invertire tendenza, adesso è complicato. Ma il vecchio De Rita pone una questione logica, creativa, utile. Davanti alla nuova crisi che si affaccia (quando non è ancora finita quella precedente), l’Italia ha comunque (almeno) tre “punti di forza”: la vitalità delle grandi città e dei distretti; la ricchezza patrimoniale delle famiglie con una grande propensione al risparmio; una sobrietà collettiva che trae origine – ricorda il sociologo – dallo “scheletro contadino” che sta dentro tutti noi.
Ed è qui che viene tirato in ballo l’Appennino, “scheletro dello scheletro”, per la sua capacità di mettere in campo “valori” ma anche “energie vitali” tipiche in milioni di cittadini “abituati alla fatica vera”.
L’invito di De Rita, a “lavorarci sopra” in modo da “avere fra le mani un potente fattore per andare oltre la crisi”, avessi qualche potere – cosa che non ho – certo non lo lascerei perdere.
Quando si parla degli Appennini, l’atteggiamento più facile (dimenticanza a parte) è quello, in chi discetta, di una nostalgia sterile attorno ai “bei tempi andati”. Meglio, in positivo, quel “lavorarci sopra” oggi tirato fuori dalla visione del sociologo. Ma chi parte? Partirà qualcuno? O tutto sarà lasciato alla, facilissima, malora?