“Gli strumenti della disintermediazione digitale si stanno infilando come cunei nel solco di divaricazione scavato tra élite e popolo, prestandosi all’opera di decostruzione delle diverse forme di autorità costituite, fino a sfociare nelle mutevoli forme di populismo che si stanno diffondendo rapidamente in Italia e in Occidente”. Ragionando di comunicazione, questa frase (di una complessità solo apparente) si spiega in modo semplice. Ridotta all’osso, e precisato che è tratta dal comunicato stampa di sintesi del rapporto 2016 Censis-Ucsi sulla comunicazione, significa che la rete favorisce i populismi. Rinvia, la frase, a un fenomeno che tutti, almeno chi fra noi abita web e social, conosciamo bene. Anche perché, magari, lo pratichiamo noi stessi diventandone protagonisti e vittime.
Giunto alla 13ma edizione e certo da leggere nella sua integralità, il rapporto fotografa ogni anno quanto la complessa sfera della “comunicazione” pesi sulle nostre esistenze. Questi rapporti offrono una miniera di numeri. E i numeri stancano. Ma ce ne stanno alcuni, in questo documento presentato ieri a Roma, da non scordare e, magari, da utilizzare per le nostre riflessioni di cittadini che hanno ancora voglia di restare tali: dunque svegli e critici.
191,6 è il primo fra questi numeri: è l’incremento percentuale delle nostre spese per i cosiddetti “consumi tecnologici” (computer, telefonini, aggeggi vari). Riferito al periodo 2007-2015 è la riprova di quanti soldi abbiamo speso in questo tipo di tecnologie. Nonostante la crisi, nonostante che nello stesso periodo il resto dei consumi abbia un segno negativo di quasi il 6%, nulla, in Italia, pare fermarci davanti alla goduria di possedere (e magati saper utilizzare solo in piccolissima parte) l’ultimo tipo di smartphone. Risparmiamo su tutto, ma non su questo: il 65% degli italiani, che sfiora il 90 considerando i giovani di 14-29 anni, utilizza uno smartphone. Risparmiamo su pane e libri, ma per l’ultimo “coso” facciamo file.
Social e piattaforme online sembrano sempre più indispensabili. E qui altri numeri: in più del 56% stiamo su Facebook (il social più popolare. Straccia tutti gli altri, in particolare il tanto osannato – fra intellettuali o presunti tali – Twitter) con una percentuale che sfiora il 90% fra i più giovani. E in tantissimi (il 61,3% degli italiani lo usa) abbiamo scoperto delizie e dolori di WhatsApp.
Ma è il rapporto fra il nostro essere sempre più social e il nostro diventare sempre più preda dei populismi (che stanno al popolo autentico, e al suo interesse, come la Nutella sta al cioccolato), che intriga e spaventa ma anche consente, alla nostra intelligenza, riflessioni teoricamente positive. Che democrazia possiamo aspettarci per un futuro, già arrivato, dove la rete offre, intrecciate, manipolazioni sconcertanti e potenzialità affascinanti? Che cittadinanza possono interpretare quelle percentuali, già oggi enormi, di individui incapaci di comprendere un messaggio di una pur minima complessità? I tanti esempi di populismi (ciascuno, per comodità, prenda quello che preferisce o più odia) in cui siamo immersi, certo non solo in Italia, come si svilupperanno e a cosa porteranno? A nuove forme di nuove dittature? Ci sarà ancora spazio per una democrazia reale in un contesto diviso fra una piccola minoranza che “sa” e il resto che “ignora” ma presume di sapere?
Siamo tutti convinti di capire tutto e, dunque, interveniamo su tutto (sapendo, in genere, poco) con linguaggi sempre più poveri, non ci poniamo problemi davanti ad aspetti a dir poco inquietanti (tipo: consegniamo tutto di noi, foto dei nipotini e gusti politici compresi, alla buona o cattiva volontà di tre o quattro potenti e ricchi personaggi). Beviamo con facilità impressionante bufale e manipolazioni di ogni tipo. Affrontiamo temi complessi (tipo: la riforma della Costituzione, il futuro della nostra democrazia) con l’approssimazione e la superficialità delle curve nord (o sud). Accettiamo di degradare sempre più, e di banalizzare sempre peggio, il nostro linguaggio. Ci offendiamo con facilità, fra “amici” facebucchiani. Attratti dai lustrini falsi di un virtuale pieno di trappole, rischiamo di non capire più quanto possa essere bella la vita reale. Eccetera eccetera.
Poi ci sono pure tanti aspetti positivi: il rapporto, esempio, sostiene che, connessi e sempre più “disintermediati” (cioè con sempre meno “intermediatori” fra noi e il mondo. Fra noi e le banche, fra noi e le vacanze, fra noi e le istituzioni …) finiamo addirittura per spendere “meno soldi” e per “sprecare meno tempo”. Qualche personalissimo dubbio, a proposito, ce l’ho e lo mantengo.
PS)- E poi ci sarebbe un altro aspetto, di cui nessuno parla (anche per un evidente e colossale interesse economico di chi, ad esempio, gli smartphone li produce e li vende). Mi riferisco alle conseguenze che sulla nostra salute, in particolare quella dei più piccoli di età, potrebbero avere usi così massicci di telefonini con le onde indispensabili per il loro funzionamento. Non manca chi mette in rapporto il calo del quoziente intellettivo con l’uso di pestidici ma anche di smartphone. Ci sono ricerche, inquietanti, che dimostrano pure questo: potenti e sapienti con le tecnologie ma sempre più ignoranti e incapace di capire.
Non manca chi contesta quel rapporto. A mancare sono, soprattutto, studi definitivi. In tale situazione, come minimo di incertezza scientifica, non sarebbe forse il caso di ricordarci tutti la bellezza di un principio detto, comunemente, “di precauzione”?