“Noi scampati lotteremo con tutte le nostre forze perché tutti si sentano fratelli e amici, per il progresso che vada sempre avanti nella libertà e nella democrazia, affinché nessuno abbia più a vivere la triste storia dei campi di sterminio”. Sono parole chiare, impossibili da equivocare, scritte da Michele Baruch a conclusione di un diario che racconta uno sterminio: la tragedia della sua famiglia trucidata dai nazisti ad Auschwitz.
La vicenda della famiglia Baruch (una fra le tantissime di origine ebraica sterminate fra gli anni trenta e quaranta dal nazismo) l’ho conosciuta nei giorni scorsi attraverso un insegnante di religione cattolica, Andrea Lottini, che dalla scuola media dove insegna (la “Alcide De Gasperi” su a Cutigliano) ha coinvolto suoi studenti in un’operazione di memoria e di attualità per ricordare quello sterminio e per far riflettere su ingiustizie e dolori contemporanei
I Baruch (madre e padre con quattro figli fra i 24 e i 14 anni) erano sfollati da Livorno proprio a Cutigliano. Qui abitavano in una ex pensione (la “Catilina”), che da anni non esiste più, proprio accanto alla piazza. La causa del loro migrare, come ebrei sefarditi, erano ovviamente le leggi razziali fasciste del 1938.
Il rifugio di Cutigliano si mostrò non proprio sicuro. La famiglia venne arrestata nelle prime settimane del 1944: portata prima a Pistoia e poi alle “Murate” di Firenze: da qui, giorni dopo, nel “campo” di Fossoli per poi essere condotta, in treno, ad Auschwitz. Qui furono uccisi tutti, tranne Michele che nel febbraio 1945 fu spedito a Buchenwald per fare la stessa fine: ma arrivarono i liberatori e Michele, ridotto a 31 chili, riuscì a scampare.
Con la collega di italiano Gianna Tordazzi, Lottini ha puntato su una “pietra d’inciampo” che pochi giorni fa, in collaborazione con il Gruppo Studi Alta Val di Lima, è stata murata davanti alla ex pensione “Catilina”: un piccolo ricordo della famiglia Baruch e del suo sterminio, un modo per togliere dalla polvere, almeno per qualche tempo, quel diario scritto molti anni dopo da Michele e oggi conservato a Livorno nella biblioteca della comunità ebraica.
Leggere quel breve diario (un esempio: la tragica scoperta da parte di Michele circa il ruolo che avevano quelle ciminiere “le cui fiamme uscivano dipinte di mille colori”), leggere quel diario fa bene. In particolare oggi, in un’Italia incarognita e incattivita da paure così efficacemente introdotte nelle menti di tanti che non hanno più voglia di riflettere e capire; in un’Italia che guarda con sospetto, spesso con odio, ogni tipo di “diversità” non rendendosi conto che, prima o poi, tutti noi siamo “diversi”; in un’Italia che, se non ci stiamo attenti, rischia perfino di appannare quei tradizionali sentimenti di umanità che non fecero mai accettare, tranne ai fanatici, l’obbrobrio delle leggi razziali. “Affinchè – ecco il punto – nessuno abbia più a vivere la triste storia dei campi di sterminio”.