“L’Istituto deve affrontare una prova difficile: a causa delle decurtazioni subite dal precedente governo nazionale, la Regione Toscana ha tagliato del 40% il nostro contributo ordinario annuale: non mancano rassicurazioni ma la realtà attuale mette a rischio la tenuta del personale dell’Istituto e lo svolgimento di tutte le nostre attività”. Lo scrivono in una lettera a tutti i soci, il presidente e il direttore dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana: Simone Neri Serneri e Matteo Mazzoni. E aggiungono che con le risorse disponibili è a questo punto possibile soltanto “gestire le attività ordinarie in sede” essendo obbligati a “tagliare acquisti, progetti e servizi”.
Ci sarà certo chi è contento, a destra, di questa situazione. Ma, con l’aria che tira, penso che la grande maggioranza di noi sia semplicemente indifferente: cosa cambia se un Istituto storico non ha i fondi per proseguire le sue attività? A che possono servire libri e archivi, lettere e foto di un passato sempre più lontano? A che servono le retoriche sui “valori” in un Paese troppo spesso retorico? Non è meglio l’oblio della polvere? E a chi può interessare, con l’aria che tira, se quel grande patrimonio, umano e di documenti, si riferisce ai ai “mitici” valori della “mitica” Resistenza?
Questa mattina, dalle rassegne stampa, ho appreso la lettera di Michele: un ragazzo trentenne, di Udine, che si è ucciso dopo aver scritto una lettera su cui in tanti stiamo riflettendo. So bene, anche da giornalista, come si debba essere cauti nel diffondere e commentare questo tipo di tragedie, la cui complessità certo non mi sfugge. Eppure le parole scelte dal giovane per motivare la sua “uscita” dalla vita sono tremende. “Da questa realtà – ha scritto Michele – non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile”.
Ho subito ripreso in mano un vecchio libro, quello con le lettere dei condannati a morte perché con le loro idee di libertà e giustizia resistevano al nazifascismo. Fra le tante, trovo quella di Achille, fucilato nel marzo 1944. “Quando riceverai la presente – scrive alla madre – sarai già straziata dal dolore. Mamma, muoio fucilato per la mia idea. Non vergognarti di tuo figlio, ma sii fiera di lui. Non piangere Mamma, il mio sangue non si verserà invano e l’Italia sarà di nuovo grande”.
E 50 anni fa, nell’Italia del festival di Sanremo, un’altra lettera colpiva e scandalizzava. “Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno”, lasciò scritto Luigi Tenco (quello di “vedrai, vedrai”) prima di uccidersi.
Non sono poi molti, in una dimensione storica, i 73 anni passati fra le morti drammatiche di Achille e del suo quasi coetaneo Michele. Forse ci sarebbe bisogno di rileggerle bene, le lettere dei condannati a morte: qualcosa di molto concreto potrebbero, dovrebbero, insegnare anche oggi; a chi governa e a chi è governato.
La mia quota ordinaria di adesione all’Istituto Storico della Resistenza in Toscana (sono iscritto da tanto tempo e ricordo ancora l’aria severa e impegnativa che si respirava nella sede storica di via Cavour a Firenze, prima che la lì l’ISRT venisse spedito, quasi come un ingombro fastidioso, in zona più periferica) l’ho pagata poco fa. A ricordo di Achille. Pensando al dolore di Michele. Riascoltando Luigi.