Mi capita spesso di sostenere che il nobile giornalismo, quello che nei nobili testi definiamo “cane da guardia della democrazia“, è a forte rischio di scomparsa.
Troppo facile, guardando le nostre tv e leggendo la carta stampata sia in ambito nazionale che locale, rendersi conto di quanto ciò sia davvero vero nel giornalismo cosiddetto “di inchiesta” o anche solo “di approfondimento“. Forme di professione che, come noto, hanno bisogno di tempo e di denaro in un contesto che va sempre più di fretta mentre le risorse certo non abbondano.
Non mancano eccezioni, che tutti conosciamo, così come non mancano, fra i giornalisti, quelli che per non piegarsi sono costretti a vivere sotto scorta. Quando ne incontri uno, o quando vedi qualche puntata di buone inchieste nazionali o locali, ti riconcili con la professione anche se, come nel mio caso, il giornalismo di vera “inchiesta” non lo hai mai praticato avendo, in verità, vissuto di giornalismo da “ufficio stampa” (nobilissimo pure quello, ci mancherebbe, ma certo assai meno rischioso di chi, per un pezzo, è minacciato di morte).
Milena Gabanelli, Sigdrido Ranucci e tutti i bravi colleghi di “Report” certe inchieste possono farle perché Rai garantisce loro una copertura legale necessaria per avere schiena dritta davanti a poteri, potenti, su cui vanno indagando. Ciò accade anche, ritengo, per altre testate.
Ma ciò certo non accade in via generalizzata: ad esempio non accade per quei tanti colleghi che in provincia tentano di tenerla dritta, la loro schiena, mettendo il naso in complicate questioni locali.
Difficile farlo già in partenza (chi lavora su territori limitati conosce, è conosciuto, ha inevitabili rapporti che anche solo indirettamente possono condizionarlo. Per non parlare dei condizionamenti da editori che certo preferiscono sempre la quiete sicura di un comunicato stampa rispetto alla tempesta probabile di un approfondimento attorno a temi magari delicati.
C’è poi, nel locale e più in generale, il fenomeno delle cosiddette “querele-bavaglio“: quella azione preventiva, che minaccia la libertà di stampa e intimorisce il singolo giornalista oltre che spaventare l’editore, messa in atto da chi si sente minacciato da una inchiesta o anche solo da una semplice domanda ripetuta, come sempre si dovrebbe fare, in assenza di risposta.
Sul fenomeno, recentemente, una sessantina di organizzazioni europee impegnate sul terreno della libertà di stampa (fra cui il sindacato italiano dei giornalisti: la FNSI) hanno presentato una proposta di direttiva europea. Obiettivo: battere il fenomeno, noto anche come Slapp; una forma di persecuzione giudiziaria, e legale, praticata da studi legali, più o meno specializzati, per conto dei potentati economici e politici ai danni dell’opinione pubblica.
La questione riguarda i giornalisti, ma riguarda anche i cittadini e il loro fondamentale diritto a essere informati davvero, non coccolati o manipolati. Vale per le grandi inchieste nazionali e vale anche per quelle in ambito locale: che spesso non ci sono. E che, se non ci sono, non sempre è solo colpa della pigrizia del singolo cronista.
PS)- So di una situazione locale dove a un collega – che stava conducendo, a modo suo e con uno stile tutto personale, una dura campagna stampa su un determinato argomento locale, potendo certo avere torto ma anche ragione – sono stati sequestrati, dalla magistratura, tutti i dispositivi elettronici (telefonini e computer) che magari contenevano ciò che ogni giornalista sa di dover avere tutelata: la segretezza sulla propria fonte. Non entro nel merito perché non conosco la vicenda. Ma un po’, confesso, il silenzio che la circonda mi ha colpito.