“… era la sobria proposta di creare un potere democratico europeo … Era la negazione del nazionalismo che tornava a imperversare in Europa … Era infine e soprattutto la possibilità per la democrazia di ristabilire il suo controllo su quei Leviatani impazzito e scatenati che erano ormai gli stati nazionali europei, poiché lo stato federale avrebbe impedito loro di diventare mezzi di oppressione e sarebbe stato da essi impedito di diventarlo a lui”. Così Altiero Spinelli nel 1957, ripensando agli anni di Ventotene, con il nesso stretto fra idea (o ideale) d’Europa e il luogo (una prigione) dove l’idea fu elaborata attraverso il “Manifesto per un’Europa libera e unita”: l‘isola di Ventotene.
Devo la citazione a un piccolo libro, uscito per “Il Mulino” in una collana deliziosa (“Ritrovare l’Italia”). Anna Foa, storica, racconta “I luoghi di confino”: in genere isole (Ponza e Ustica, Tremiti e Lampedusa, Lipari e Asinara) ma anche località interne (una fra tutte: Aliano di Carlo Levi) dove il fascismo imprigionò politici e zingari, omosessuali e anarchici, carcerati comuni e donne emarginate perché prostitute o … madri nubili.
C’è anche la piccola Ventotene dove fra il ’42 e il ’43 i confinati arrivarono a 800, dove questi non potevano ascoltare gli apparecchi radio e dove i pochi isolani che ne erano dotati ascoltavano i notiziari a tutto volume e a finestre aperte in modo da condividere le notizie proprio con i confinati.
Qui Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e sua moglie Ursula Hirschmann nel 1941 stesero un manifesto che oggi farebbe bene rileggere: alla vigilia di elezioni europee che potrebbero decretare la fine di un’Europa Unita che, peraltro, così com’è, oggi non piace a nessuno e che ha perso quasi tutto delle antiche, e pluralistiche ma convergenti, sue idealità.
A Ventotene, dal 1973, una targa ricorda quel manifesto: l’appello dei primi federalisti italiani è fatto dipendere da tre premesse: “la tragedia della guerra”, “i delitti del totalitarismo”, “la crisi delle sovranità nazionali”. La lapide riporta poi una “fiducia” particolare dei federalisti incarcerati: “che altri con loro, traendo dai comuni errori lo stesso insegnamento, iniziassero la lotta per un’Europa libera e unita”.
Le parole nelle lapidi sono solenni e retoriche. Ma il passaggio dalla solennità di un ieri così ancora vicino alla nebulosità di un oggi così rischioso, colpisce e spaventa. Eppure da quei luoghi di confino e di violazione dei diritti umani, si poteva anche scappare. Nel 1926 da Savona scapparono Filippo Turati e Sandro Pertini; nel 1929 da Lipari fuggirono Carlo Rosselli (poi assassinato in Bassa Normandia, con il fratello Nello, dai sicari di Mussolini) con Emilio Lussu e Fausto Nitti.
Chissà se anche loro, nell’immediato dopo la fuga, si saranno lasciati scappare l’imprecazione (“Maledetti bastardi, sono ancora vivo”) di “Papillon” appena fuggito per la seconda volta dal luogo di detenzione. E chissà se qualcuno, fra noi, ha oggi voglia di riflettere sul rapporto fra sovranismo, oppressioni, guerre che le pietre di Ventotene continuano ancora a gridare nella nostra indifferenza.