“Venite a Nairobi: venite a piantare un po’ di alberi con me”. A questo ultimo appello nella sua relazione (“Foreste dell’Africa centrale: minacce e prospettive”) al forum internazionale di Greenaccord, noi che avevamo ascoltato le sue dolci e chiare parole è stato facile applaudire. Applaudire questa donna – Teresa Muthoni Maina Gitonga – dirigente di una fondazione internazionale, con sede in Kenya, che si occupa di alberi, è stato immediato nell’aula di San Miniato (Pisa) dove si teneva l’incontro, il quindicesimo della serie, quest’anno dedicato alle “foreste respiro della terra”.
Teresa aveva parlato anche di un altro incontro – quello che si apre proprio oggi su iniziativa ONU – organizzato a Nairobi: quando ho saputo dell’incidente aereo con 157 morti fra cui anche otto belle persone italiane, ho subito pensato al volto di Teresa. Temevo che avesse fatto in tempo, venendo via dalla Toscana, a prendere proprio quel volo per Nairobi: timore, per fortuna, infondato. Ma gli appunti presi mentre lei parlava li ho qui.
Era stata collocata, Teresa, al centro di una sessione intrigante: esperti stavano raccontando ciò che, in tema di foreste, capita in Cina e nel bacino del Mediterraneo, in Siberia e in Indonesia, in Eritrea e, appunto, in Africa Orientale.Teresa ha raccontato il degrado delle sue foreste, gli alberi abbattuti per costruire strade, la fatica delle donne africane nel percorrere chilometri ogni giorno, a piedi, per cercare acqua e legni con cui accendere il fuoco per cucinare. Ha aggiunto parole sulla biodiversità distrutta e sul dramma degli incendi boschivi (poco tempo fa, in Kenya, ce n’è stato uno gigantesco. Nessuno di noi, al Nord, se n’è accorto); sulla erosione del suolo, sulle conseguenze negative verso gli animali, sulle inondazioni nelle zone interne.
Ma ci ha anche parlato di ciò che, nel suo Paese e in quella parte di Africa, si cerca di fare: ad esempio la piantumazione di 100 milioni di alberi (20 milioni solo in Kenya) e la ricerca di soluzioni, davanti ai cambiamenti climatici, che partano dalle più antiche tradizioni dei popoli indigeni. Ad esempio l’uso delle foglie per creare compost naturale, restituendo valore a suoli impoveriti, al posto dei fertilizzanti chimici. E tutti siamo rimasti colpiti dal tono, non assertivo, di Teresa e dalle sue ripetute domande a noi su come coinvolgere al meglio non gli esperti ma le comunità locali, non i ricercatori ma la gente semplice che vive nei villaggi.
Poco prima un’altra donna, una giornalista canadese che collabora con il Club di Roma, Kaarin Rugiero, aveva scosso la platea con ciò che tutti sappiamo ma che subito dimentichiamo. Per colpa dei mutamenti climatici, cioè per colpa nostra, fra pochi anni, attorno al 2050, i migranti specifici potrebbero arrivare a un miliardo. Con un mondo coinvolto in violenze e guerre, con terre sepolte dai mari e folle rabbiose, con malattie e fame. Altro che gli sbarchi di un oggi che pure ci spaventa tanto e porta voti ai truci.
Forse siamo ancora in tempo. Forse. Ma dovremmo pensarci subito in modo da agire puntando su rimedi resi ogni anno sempre più difficili dalla velocità con cui avanza l’inquinamento. Parola concorde di tutti gli studiosi, non certo di qualche folle invasato.