Lungi da me passare per uno che ci capisce. In realtà nulla ci capisco, nelle questioni economiche e tantomeno in quelle fiscali. So solo, a proposito di tassa, che, da dipendente, ho sempre pagate tutte le tasse e che, oggi da pensionato, continuo a pagarle tutte: un po’ perché credo nel dovere civico di pagarle, le tasse; e un po’ per la mia condizione di pagatore anticipato.
Non mi sono neppure estranei i ragionamenti circa l’elevata (la troppo elevata) e complicata (troppo complicata) imposizione fiscale in un Paese dove peraltro (ecco il punto vero) l’evasione è altissima e la politica è assai “disattenta” su questo fronte.
Oggi, con il governo “del cambiamento” e con la cosiddetta “pace fiscale”, sento tornare in voga una “soluzione” (il vecchio condono) cui non credo basti mutare il nome per renderla giusta. Ma soprattutto sento parlare di “tassa piatta”, che però partirebbe avendone già tradito il presupposto di base (l’aliquota unica).
Ho ascoltato, in radio, una trasmissione che ha contribuito a radicalizzare ancor di più la mia contrarietà. Veniva commentata la frase, poi parzialmente rettificata, di uno dei due vicepresidenti del Consiglio (quello leghista): per lui, non a caso alleato non solo con i 5Stelle ma soprattutto con Berlusconi, con la tassa piatta “tutti ci guadagnano” perché se uno “fattura di più e paga di più, reinveste di più e crea lavoro in più”.
Insomma: se benestanti e ricchi pagano meno tasse, questo loro indubbio vantaggio finirebbe per aiutare, in una sorta di trascinamento, anche le fasce più basse di reddito.
Si tratta, come mi hanno fatto capire alla radio, di una teoria economica chiamata del “trickle-down” o, in italiano, “gocciolamento dall’alto verso il basso”. Si basa – leggo su Wikipedia, ma credo sia corretto – “sull’assunto secondo cui i benefici economici elargiti a vantaggio dei ceti abbienti (in termini di alleggerimento dell’imposizione fiscale) favoriscono necessariamente, e ipso facto, l’intera società, comprese la middle class e le fasce di popolazione marginali e disagiate”.
Ripeto: non ci capisco nulla. Un esperto “di destra” (sono affezionato a categorie del genere) potrà certo dimostrare la validità, applicata all’Italia, di una teoria che a me (anche senza aver consultato esperti “di sinistra”) pare comunque ingiusta, immorale. Perfino non costituzionale.
A me questa tipo di tassa, non a caso in voga negli USA, puzza di filantropia. E a me la filantropia, nè quella ottocentesca nè quella rivestita da panni moderni, proprio non piace.
L’idea che dalla sfarzose pieghe del vestito del ricco, aiutato dallo Stato a essere sempre più ricco, possano scendere (pochi) centesimi in favore di un povero quasi obbligato, per questo, a ringraziare umilmente il ricco, proprio mi pare antica e offensiva. Offensiva, questa sorta di elemosina, anche per la dignità del ricco non solo per quella del povero.
Il Vangelo di Cristo – da cui secoli di sapienti hanno derivato un importante pensiero sociale e su cui, in campagna elettorale ha “giurato” (sic) Matteo Salvini – mi indirizza verso altre frontiere. Che volete farci? “La giustizia è la prima via della carità“, ricordava, nel solco di un pensiero davvero lungo, Benedetto XVI nella sua “Caritas in veritate“.
E la Costituzione del 1948 fa mi conferma, con l’articolo 53, che il “concorrere”, da parte di “tutti” (nessuno escluso) alle “spese pubbliche” (ospedali, scuole, welfare …) deve avvenire in base alle “capacità contributive” di ciascuno. In un sistema tributario non a caso “informato a criteri di progressività”. Se i Costituenti avessero voluto altre strade, oggi capaci di sostenere impostazioni “filantropiche”, avrebbero scritto ben altre parole.
In un contesto mondiale dove (Oxfam) l’1% della popolazione possiede l’82% della ricchezza e in un contesto italiano dove il 5% dei più ricchi possiede il 21,5% della ricchezza nazionale netta, un “cambiamento” è certo obbligatorio. Ma attenzione a cosa si cambia e a come lo si cambia.