Ovvero spopolamento. Nel decennio 2006-2016 la montagna pistoiese ha perso quasi mille dei neppure 13 mila suoi abitanti. Lo scorso 1 gennaio fra Abetone Cutigliano, San Marcello Piteglio e Sambuca vivevano poco più di 11.600 persone di cui una cifra elevatissima (il 40%) con più di 60 anni. Nel 2016 su questa vasta parte di territorio pistoiese i nati sono stati appena 37 e i morti ben 205 (nel mio Comune di nascita – San Marcello – i morti sono stati 117 a fronte di 18 nati.
Grazie alla cronaca locale de “La Nazione” leggo, oggi, le cifre di un dramma. Dramma che non arriva come un fulmine a ciel sereno. Roba nota da un pezzo. Ma ordinate, messe l’una accanto all’altra, queste sono cifre che fanno riflettere (chi ha ancora voglia di riflettere).
Triste pensare cosa potrà essere questa terra, se non arrivano accadimenti eccezionali, fra 10 o al massimo 30 anni. Cifre di sconforto e abbandono, di spopolamento e morte.
Per i casi della vita sto proprio leggendo un libro corposo (“Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni”, Donzelli editore, 2017) di un antropologo che da 15 anni studia l’Italia dell’abbandono: Vito Teti. Un libro “di scienza e di poesia”, scrive in prefazione Claudio Magris. Una ricerca nel gigantesco fenomeno che interessa buona parte delle aree interne e montane di questo nostro Paese, ma anche di tante altre aree europee: borghi abbandonati e paesi fantasma a fronte di aree sempre più caotiche dove la popolazione è obbligata a concentrarsi nonostante siano già evidenti gli aspetti negativi in stili di vita assai poco umani.
Una ricerca, quella di Teti, fatta non per piangersi addosso. Ma per tentare di “rimettere al centro il destino dei paesi e il bisogno di una progettualità nuova, non ideologica, capace di ripensare per i luoghi periferici, interni, non metropolitani, forme di vita, immagini e occasioni di rigenerazione nuove e sostenibili”. (Teti, pag, 6)
Capita spesso, specie in noi che cominciamo ad avere una certa età, di guardare indietro, a un passato spesso idealizzato, con nostalgia. Com’erano belli, com’erano vivaci, com’erano ricchi anche questi nostri paesi qualche decennio fa. Comprensibile, Ma inutile.
Eppure c’è una forma di nostalgia che può fare del bene: quella, sempre usando parole di Teti, “positiva e costruttiva”, quella “che può essere sostegno a nuove pratiche di innovazione, inclusione, mutamento”. E il volume presenta un certo interesse proprio per il tentativo di partire da abbandono e spopolamento per costruire (usando parole di un altro studioso, Pietro Clemente) luoghi di “resistenza ai grandi processi di urbanizzazione, omologazione, unificazione mercantile”. Insomma una “strategia lunga e complessa” verso il ripopolamento di questi territori “attivata da nuovi soggetti, spesso in cerca di nuove radici, e molte volte dotati di un forte capitale culturale con il quale attivano nuovi processi e inventano tradizioni e forme culturali che possono contrastare lo spopolamento”.
Se la “nostalgia”, in altre parole, è solo “restaurativa” e cerca di riproporre un passato idealizzato e inesistente, quella serve a poco: anzi contribuirà a seppellire quel poco che resta. C’è invece bisogno – ecco l’ossatura che, anche con molti esempi, tiene in piedi il libro – di una “strategia per inventare il paese” e così ci si potrà davvero accorgere come ciò che resta sia (anche sui monti sopra Pistoia) ancora moltissimo. “Serve ascoltarlo, riguardarlo, prendersene cura, nominarlo”.
Servono, in questo, tante premesse: compresa una nuova voglia di essere cittadini attivi. Ma serve anche una Politica all’altezza di un compito così grande. Uno fra i grandi compiti per l’intero paese: cogliere ovunque, anche dalle gigantesche potenzialità delle innovazioni tecnologiche, le buone opportunità per far tornare vita nelle tante montagne pistoiesi di tutta Italia che quella vita la stanno, rapidamente, perdendo.