No, non è proprio lana caprina. La storia è quella del “canone Rai”. Una imposta con cui ci viene chiesto di pagare non l’abbonamento al servizio pubblico radiotelevisivo ma solo, direi stranamente, “il possesso di un apparecchio televisivo”.
Da quest’anno – e Renzi si augura, in cambio, tonnellate di voti – si paga meno (100 invece di 113 euro) e si paga in bolletta elettrica essendo bombardati da una campagna comunicativa che ce lo ricorda a ogni ora.
Il “canone Rai” io l’ho sempre pagato. Credo nel valore di un “servizio pubblico” radiotelevisivo. Per questo sono disposto a pagare (in fin dei conti, anche con il vecchio importo, poche decine di centesimi al giorno) per poter avere, in cambio, un “servizio” che sia anche (a differenza di altri tipi di “servizi” radiotelevisivi) “pubblico”: basato non solo sulla quantità dell’audience ma anche sulla qualità del prodotto.
Da un punto di vista di copertura legislativa, su tutto sta una legge preistorica: un “regio” (!) decreto del 1938. Da allora è cambiato tutto, specie negli ultimi decenni, ma il decreto di base è sempre quello “regio”: la legittimità viene poi da sentenze, anche recenti, della Corte Costituzionale.
In ogni caso con quello che per comodità chiamiamo “canone Rai” noi paghiamo – non senza conseguenze talvolta ridicole, specie oggi che in molti guardiamo la tv attraverso un computer o un telefonino – il possesso di un semplice “apparecchio”. Da quello passano tanti tipi di offerte televisive: da quel “coso” noi vediamo Rai e Mediaset, La7 e Tv2000, le locali. Ma i soldi dell’imposta vanno solo alla Rai.
La soluzione più semplice sarebbe una nuova norma per farla finita con questa finzione.
Volendo comunque proseguire con la finzione, resta un nodo fondamentale bene evidenziato dalla Corte Costituzionale (sentenza 2002): il “canone Rai” è legittimo, ma si giustifica solo se lo Stato “obbliga” (il verbo è proprio questo) la Rai ad “assicurare una informazione completa, di adeguato livello professionale e rigorosamente imparziale”. Questo per le news. Ma, più in generale, l’obbligo sta nel non “piegarsi alle sole esigenze quantitative dell’ascolto” puntando invece su scopi (“di ordine educativo, artistico, culturale”) a qualità elevata.
La Rai è una grande azienda, ma possiamo davvero dire che tutto, in Rai, è coerente con questo tipo di “obblighi”? Guardando, per esempio, i grandi tiggì serali (quelli che ancora orientano tanto consenso), siamo certi di ricevere una informazione “completa” e “rigorosamente imparziale”?
Ecco perché non siamo su lana caprina. Ecco perché il cittadino dovrebbe svegliarsi: pagando quei (oggi) 100 euro annui, lui diventa “proprietario”, per la sua microscopica parte, della Rai. Milioni di cittadini che pagano i loro singoli 100 euro sono una gran bella proprietà diffusa (e in teoria potente. Almeno potente come potenti, oggi, sono nelle scelte Rai gli inserzionisti della pubblicità: capacissimi, oggi, di decretare il successo o l’insuccesso di un programma).
E se i cittadini-padroni si svegliassero? E se il legislatore, nelle continue riforme del settore, finalmente prevedesse uno o due posti riservati, nel cda, proprio a loro, ai cittadini padroni?
(pubblicato su “ToscanaOggi” domenica 14 febbraio 2016)