Mai vista prima quella chiesa così particolare. E mai conosciuto a sufficienza quel prete, pure lui così particolare. Sentito dire, certo, ne avevo. Ma da qui a conoscerlo, ce ne passa. Adesso continuo a conoscerlo poco, quel prete, ma quella sua chiesa mi è rimasta dentro.
Chissà quante altre volte, in Darsena nella Viareggio più autentica, ci sarò passato davanti (e chissà quanti altri – nella Viareggio estiva e in quella, forse ancora più bella, della cosiddetta Viareggio “fuori stagione” – ci saranno passati davanti) senza rendersi conto che quello spazio contiene una piccola chiesa e testimonia una storia forte, radicale, di fede radicale e forte.
A me è capitato giorni fa, in assoluta “fuori stagione”, di stare qualche giorno nella Viareggio accanto alla Darsena. La prima cosa che qui impari, riguarda il parcheggio dell’auto: se la tieni dalla parte della “passeggiata”, le strisce sono tutte colorate di blu, ma basta oltrepassare un ponte, andare oltre, e trovi un sacco di posto gratuito.
Lasci l’auto davanti ai cantieri navali e per tornare, attraverso un ponte girevole opportunamente dedicato a una vittima delle leggi razziali, davanti a quello strano edificio devi passarci per forza. Era una ex stazione sanitaria dei marittimi: fu qui che quel prete trovò alloggio, in mezzo a quei cantieri navali dove aveva deciso di essere prete. Ristrutturò l’edificio cadente e costruì una cappella.
Qui è sepolto. La lastra in pietra, sul pavimento, riporta sei parole a lui care (“La Morte non chiude la Storia”), i segni dell’inizio e della fine, il simbolo del Cristo, le date della sua nascita (1920) e della sua morte (1988). E il suo nome: don Sirio Politi.
Scoperto per caso in una limpida mattina di inizio anno, quel luogo mi ha colpito. Così come la vicenda di colui che è considerato il primo prete operaio italiano. Vicenda al giorno d’oggi lontana, come lontano il clima che la originò, fra lotte operaie e rinnovamento ecclesiale.
Una scelta così radicale (per celebrare Messa accanto a operai che stavano occupando un cantiere, il prete scavalcò il muro) da creare imbarazzi, se non ostilità, da entrambe le parti. Fra gli operai allora “rossi” e abituati a non avere fra i piedi Vangelo e preti; ma anche in una chiesa immersa nell’Italia sospesa fra anni Cinquanta e Sessanta.
Sulle pareti dell’edificio vieni attirato da murales colorati. A me, in genere, queste “opere” piacciono poco. Ma qui basta girare attorno all’edificio e ne trovi una clamorosamente affascinante, restaurata da poco nei suoi colori brillanti. E’ il “Cristo dei pescatori”, che fronteggia il canale di Viareggio sul moletto sanità: dipinto nel 1976 da Corrado Giovannetti “detto Menghino”.
Fa bene entrarci, in quella chiesa dove dieci persone significano … affollamento. Fa bene sostare accanto. Vedi yacht di lusso, in costruzione o in riparazione. E qualche pescatore che rimette le reti.
Trovi uno spazio circolare: a gradinate, per ospitare incontri che chissà mai se oggi si tengono. Dentro la chiesa trovi la lampada accesa e una Scrittura aperta. Il giorno della mia visita era aperta su Ezechiele 18: sul fatto che ciascuno di noi è responsabile, lo voglia o no, delle proprie azioni.
Sulle poche panche, qualche copia dell’ultimo numero di una rivista. Quasi 60 anni fa don Sirio volle intitolarla “Lotta come amore” (titolo oggi fuori fase, direi perfino preistorico). Con intuibili difficoltà oggi la porta avanti un altro prete, Luigi Sonnenfeld, in ricordo di un sogno (“una chiesa liberata dal potere e tesa a divenire sorella della realtà umana immersa nella povertà e nelle periferie del mondo”) oggi raccolto dal Santo Padre.
“Senza fughe solitarie – scrive don Luigi – la comunità ecclesiale, come ogni comunità umana, ha bisogno non si sudditi obbedienti e passivi, ma di liberi creatori di iniziative inserite nel cammino comune, anche assumendosi il rischio della sperimentazione”.
Fa bene scoprire, nella Viareggio della Darsena, una chiesa così piccola eppure così grande.