«Se noi non ci reinventiamo una sorta di nuovo patrimonio spirituale delle persone, cioè un’etica di fondo, una capacità di vita interiore, una resilienza spirituale alle difficoltà della vita, la prossima “pandemia” che fermerà tutto sarà la depressione» . (Luigino Bruni, economista)
Ormai la religione, nel mondo, è unica. Non fa più riferimento a un Dio (di quelli conosciuti) ma a dei di altra natura, riuniti sotto il nome di “capitalismo” e declinati in modi diversi ma spesso con rimandi a sfumature legate a un sacro ormai dimenticato dai suoi fedeli (i luoghi più sacri in una banca, conosciuti anche come caveaux, sono anche chiamati – e ci sarà un motivo – “sacrestie“).
Nè è certo un caso, restando a noi, che le “giornate del Signore”, le nostre domeniche di cattolici spenti, vedano sempre meno popolo frequentare i riti nelle vecchie e oscure chiese ma numeri sempre più altri abitare altri templi, di grande e ambigua luminosità, inginocchiarsi ad altri altari, adorare altri dei.
Se ne parla di questo, e se ne parla certro con un grado di ricercatezza che chi scrive neppure si sogna, in un “festival” nella parte nord della Toscana. Promossa dai “ricostruttori nella preghiera” e quest’anno guidato da un comitato scientifico che mette insieme nomi illustri (non se ne abbiano gli altri se cito solo il primo, in ordine alfabetico: Luigino Bruni. E l’ultima, nello stesso ordine: Roberta Rocelli) l’iniziativa lega insieme Economia e Spiritualità.
Giunta alla nona edizione, il festival unisce tre capoluoghi della provincia toscana (Lucca, Pisa, Prato) e tre cittadine (Capannori, Pescia, Scandicci) capaci di raccogliere la sfida di analizzare “il capitalismo come religione“. Questo il titolo. Pieno di fascino. E di prospettive.
Partenza alla grande, sabato scorso, nella sala consiliare del Comune di Prato (apertura e chiusura della prima giornata pratese affidate a due uomini di spettacolo. Ma uno spettacolo “diverso”: Davide Riondino e Domenico Iannacone).
Dopo una lettura affidata a John Milbank teologo e poeta fra i più noti nell’indagare il rapporto fra capitalismo e cristianesimo (Luigino Bruni ha supplito, sia con la traduzione dall’inglese sia con l’assenza fisica del relatore, tenuto a Londra non solo da un’influenza ma anche da uno sciopero degli aerei), uno scambio a due di quelli non facili da dimenticare: Guidalberto Bormolini, monaco, e Marco Bartoletti, imprenditore del lusso, hanno affrontato un tema (“Il denaro come oggetto di fede. Il tempio e i riti del capitalismo come religione“) dall’evidente interesse.
Poco distante, a Prato, ma in qualunque altra città o borgo italiano di un normale sabato pomeriggio ormai prenatalizio, il popolo degli acquisti impegnato ad affollare (sempre meno) i negozi di prossimità e (sempre più) i centri commerciali (oppure ad acquistare “comodamente” da casa fregandosene dei costi, anche umani, che ciò implica).
Non semplice sintetizzare gli intrecci fra i due relatori. D’altronde chi è interessato potrà ritrovare la conversazione (giuro: merita). Personalmente ne ho trovato uno. Che ha a chi fare con la parola “sguardo“. Declinata al plurale.
Bartoletti (capo di un’azienda con sede primaria a Calenzano) ha raccontato la storia della sua impresa. Dà lavoro, produendo oggetti nella catena del lusso, a persone normodotate e anche a persone con varie difficoltà. Difficoltà di tutti i tipi. Fisiche e non solo.
A un certo punto ha detto le otto (8) parole che mi servivano, e che stavo aspettando, per tirarci fuori una sintesi. Siamo chiamati a passare – ci ha detto – “da sguardi di pietà a sguardi di ammirazione“. Si riferiva al nostro atteggiamento, di persone “normali”, davanti a fratelli e sorelle ingabbiati da un male che ce li fa vedere come “diversi”.
In genere proviamo pietà (declinata in tante sfumature, tavolta confinanti perfino con il fastidio). Ma se voi potessi vedere ciò che esce da quelle persone nella nostra azienda, voleva intendere Bartoletti, allora scoprireste che “misurare le persone per la redditività immediata è un errore“. E avreste sul volto, appunto, sguardi altri. Sguardi di “ammirazione”.
Specularmente opposto – almeno io l’ho interpretato così – il richiamo di Bormolini. Partendo dalla “grande sete di spiritualità” verificabile in tanti che hanno comunque perso adesione al cattolicesimo e ragionando sulle “piccole cappelle votive” (le vetrine dei negozi) e sui “pellegrinaggi veso i grandi santuari dei centri commerciali“ma ricordando anche la profexia di Pasolini sulla società dei consumi come “vero fascismo di oggi“, il monaco ricostruttore ha indicato, come “via di uscita” la capacità di “riabbracciare la dimensione dello spirito“.
Insomma, ribaltando le otto parole che poco dopo avrebbe detto l’imprensitore rifendole ai suoi lavoratori, l’invito sta nella nostra capacità/volontà di passare “da sguardi di ammirazione” (verso le vetrine, gli acquisti, il consumismo) “a sguardi di pietà” (laddove il concetto è di quelli estensivi, non certo limitato a antiche e moderne forme di elemosina o assistenzialismo o mera filantropia).
Poesia? Può essere. Non a caso l’ultimo debito di Bormolini verso il suo (e non solo suo) amico Franco Arminio, paesologo e poeta. Sulla necessità di tornare al sacro.
Perchè – si dice sicuro Arminio nel “breviario per chi ha perso la via” scritto con Bormolini – “abbiamo bisogno di politica e di economia/ ma ci vuole una politica e un’economia del sacro./ Ci vuole la poesia“.