“Una Chiesa che aveva preso sul serio il Concilio e la scelta evangelica per i poveri”. Don Enzo Benesperi avrà pure novant’anni ma a sentirlo – e devo dire anche a vederlo – non te ne accorgi.
La sua è voce che sprizza energia e, soprattutto, la sua – con quella di Nadia Vettori, anche nel ricordo di chi non c’è più ma anche davanti ai frutti di quella “missione” ormai chiusa – è testimonianza viva, di quelle che inchiodano alle tue vite tranquille e alle tue comodità.
Di quelle che fanno pensare. Di quelle che costringono a riflettere anche su come eravamo. Su come con il tempo siamo diventati.
E come abbiamo speso la nostra vita di aspiranti cristiani in un contesto – il nostro – sempre più secolarizzato e purtroppo indifferente ma comunque bisognoso di cura, attenzione, Amore, testimonianze. Bisognoso di Gesù Cristo.
C’ero pure io mezzo secolo fa quando qualcuno da Pistoia partì, e partì poi in momenti successivi, per quella che nel lontano Brasile (ieri ancora più lontano di un oggi che con le tecnologie ormai ci si collega ovunque da ovunque e in tempo reale) venne chiamata “Missao Pistoia”.
Partì nel nome di Cristo. Partì per evangelizzare e, come si diceva allora, per dare testimonianza di “promozione umana”. Finendo per fare un sacco di cose. Anche sul piano civile. Anche sul piano politico. E anche per essere “evangelizzato/a” da uomini e donne, giovani e vecchi, di un contesto così diverso.
Allora eravamo in diversi, inevitabilmente oggi con capelli non più neri come allora, a osservare con interesse quella singolare avventura. Erano gli anni del post Sessantotto, della contestazione. E anche delle stragi. Qualcuno non c’è più. I pantaloni da uomo, che oggi si devono portare stretti, allora si portavano a zampa di elefante.
Sacerdoti e laici in partenza dalla Pistoia di metà anni settanta verso il Brasile nel nome di Gesù e con cuore/cervello/anima smossi da quel ciclone che fu il “Vaticano secondo”.
E siamo stati in diversi, pochi giorni fa, nell’aula maggiore del Seminario di via Puccini, ad aver avvertito l’obbligo morale di esserci per la piccola, semplice, efficace, cerimonia dei primi 50 anni da quella partenza.
Tutti uniti, sia pure con le molte nostre diversità, attorno al vescovo Fausto (“Siamo qui non per un’operazione nostalgia ma perché, eredi di quella esperienza, cerchiamo di ritrovare un impegno missionario adeguato all’oggi”).
A condurre la mattinata, intervallata da brani di lettere, un amico di questa esperienza, Stefano Salvadori. E a darci una scossa salutare, insieme a un gruppo di persone arrivate apposta dal Brasile, l’infermiera Nadia Vettori e il prete Enzo Benesperi.
Aveva trent’anni, Nadia, quando (“con una valigia e un pizzico di follia per entrare in un sogno di utopia”) partì per una terra così lontana e così diversa dai suoi piccoli paesi. Ci sarebbe restata 43 anni.
Avrebbe curato – “con un gruppo di persone diverse arricchito da persone e competenze locali” – non solo le malattie del corpo ma anche altri tipi di malanni. Restandone inevitabilmente coinvolta e trasformata in mezzo a “un tessuto d’amore alla luce della Parola”.
A spiegare il senso di “Missao Pistoia” (una parte di Chiesa pistoiese allargata, oltre i confini, nella Chiesa brasiliana in base alla proposta di una fede che si fa dono) ci ha pensato il cardinale Giacomo Lercaro.
Lo ha fatto tornare in vita, per pochi istanti, un don Enzo che ci ha ricordato le “conciliari” parole profetiche di quel cardinale secondo cui “è quando la Chiesa si è allontanata dai poveri che si è persa” per poi, al contrario, ritrovare sé stessa quando i poveri sono tornati al centro del suo esistere.
Laddove, come ovvio, il concetto di “povertà” è molto più largo della pura dimensione economica. E laddove il criterio per la presenza in terre brasiliane non poteva essere, eternamente attuale, che triplice: vedere, giudicare, agire. Partendo da un “vedere” (le sofferenze del popolo, toccandole con mano) che non era poi molto difficile.
Umberto (don Guidotti) e Nadia poco dopo l’arrivo si lanciarono nel tema (“salute per tutti”) scelto all’inizio degli anni Ottanta dalla Chiesa brasiliana. Nel frattempo era arrivato anche don Enzo. Don Cesare De Florio c’era già.
Decenni di evangelizzazione e, come si diceva un tempo, di promozione umana. Sostenuti dai vescovi pistoiesi, partendo da don Mario Longo Dorni.
“Sono un prete felice e se potessi tornare indietro rifarei tutto di nuovo – don Enzo ha citato queste parole di don Umberto che poi sono le parole di tutta questa “pattuglia” tosco/brasiliana, da don Cesare a Berta e Grazia e tutti gli altri – perché “venni per evangelizzare e fui evangelizzato”. Da qualche parte lassù (il corpo sta in una tomba qui vicino, a Comeana) don Umberto ha certo sorriso.
E’ toccato ad Alessandro Galardini presentare il libro (“Missao Pistoia. 50 anni a servizio delle Chiese sorelle”) aiutato a essere pubblicato da Fondazione Giorgio Tesi lì rappresentata da Carlo Vezzosi.
Un libro, con ampio corredo di foto, che “non è album di ricordi ma testimonianza di uno stile di Chiesa che ancora nel presente siamo chiamati a realizzare”. Un volume che “conserva una memoria dinamica e profetica”. Un volume che sarebbe triste se passasse subito – questo il rischio – nell’inutile dimenticatoio delle belle cose di un tempo lontano.
Così come sarebbe triste se nessuno entrasse, nel piano superiore del Seminario, nella stanza intitolata a don Umberto Guidotti con archivi e testimonianze di “Missao Pistoia”. Inaugurata a fine incontro, sarà aperta due volte a settimana.
I giovani di un oggi così digitalizzato lì troveranno anche la preistoria di qualche “ciclostilato” d’epoca. E magari potrebbero interrogarsi non solo su come si sono trasformate, in appena mezzo secolo, i mezzi di comunicazione ma anche come si può fare, oggi, a non perdere quello spirito di un Concilio ufficialmente chiuso l’8 dicembre 1965 (fra un anno, nell’anno di un nuovo Giubileo, gli anni passati da quella chiusura saranno sessanta).
Nadia ha chiuso assicurando tutti noi, anche chi come me ha scelto una vita tutto sommato comoda, di aver vissuto una “vita bella”.
Don Enzo non lo ha detto, ma bastava guardarlo e sentirlo parlare, per capire come anche lui concordi. E nessuno di loro ci tiene – o ci teneva – a essere celebrato come un santino.
Hanno, semplicemente, cercato di “camminare sulle vie del Vangelo – come scriveva don Tonino Bello, giustamente riportato a fine libro – essendo “missionari di giustizia e di pace” ed essendosi “lasciati scavare l’anima dalle lacrime della gente“.