Chi mi dice che quel post o quel tweet, che magari condivido o su cui magari dissento, lo abbia davvero pensato e scritto quel presidente o quel sindaco o quel ministro nel cui profilo istituzionale, o anche personale, quelle parole sono apparse? Come credere sul serio che politici così pieni di impegni trovino il tempo per commentare l’ultimo fatto di cronaca? E che accade se prima o poi arriva un corto circuito?
Il fenomeno è noto da tempo. Riguarda tutto il ceto politico, di ogni “ditta”. Scomparsi i partiti e i meccanismi (non tutti negativi) che si portavano dietro, ormai la politica si fa solo con contenitori “ad personam” e senza regole di democraticità e trasparenza interna. Ma, soprattutto, oggi si fa “comunicando”: subito, sempre sul pezzo, a slogan perché nessuno pare più in grado di capire un ragionamento con un minimo di articolazione.
I politici dispongano di staff privati che curano la “comunicazione”, in particolare sui social. Qualcosa che supera l’antichissimo fenomeno dei ghost writer. Non più giornalisti da uffici stampa (iscritti a un Ordine e obbligati, bene o male, a rispettare alcuni presupposti). Non più intellettuali in grado di scrivere discorsi complessi, ma spesso giovani precari, pronti a tutto o quasi, ovviamente “di fiducia”, smart nel senso di rapidi, pagati non si sa bene come e quanto.
Molto si è scritto e ironizzato sulla mitica e costosa “Bestia” di salviniana memoria, ma quello è, più o meno, il modello oggi imperante.
Forse sarebbe il momento – specie per chi continua nonostante tutto ad avere a cuore la professione giornalistica intesa come servizio al diritto del cittadino ad essere informato in modo corretto – di prestare attenzione su come esponenti istituzionali di ogni colore sono presenti sui social.
Non sarebbe male, ad esempio, un’indagine continua, aggiornata, su modalità e costi di questi meccanismi spesso manipolatori. Da chi sono pagati? Quanti sono? Che contratti hanno, se mai ne hanno uno? Quanto sono pagati? Che rapporto hanno con chi, nella PA, è entrato per concorso?
Così come non sarebbe male introdurre trasparenza. Tentativi sono stati già fatti, ma oggi (esempio dopo il tweet totiano sui vecchi non “indispensabili allo sforzo produttivo del Paese“) è forse il momento di rilanciarli.
Ad esempio prevedendo, per i messaggi social non scritti dai politici che comunque se li intestano, un “bollino di riconoscibilità“: dunque una sigla (potrebbe bastare la parola “staff”) da cui si capisca che il testo origina non da quel politico ma, appunto, da qualcuno del suo staff.
Ciò implicherebbe che solo i messaggi non dotati di tale “bollino” sono davvero ascrivibili al politico, fornendo al lettore una pur elementare, ma forse utile, griglia di trasparenza sull’origine del messaggio stesso.
Se DOC o DOGC o le varie forme di tracciabilità valgono per i cibi, perché non dovrebbero valere per le dichiarazioni di un politico con responsabilità istituzionali? Se chi compra il Parmigiano ha diritto a non vedersi rifilato un Parmesan qualunque, perché chi legge una dichiarazione politica non deve avere lo stesso diritto?
PS)- Con una piccola domanda finale: e se tutta questa spesso inutile orgia comunicativa (che in genere si sofferma sul politichese ma lascia in ombra aspetti più importanti) fosse in grado di autolimitarsi in quantità migliorando in qualità, sarebbe poi un disastro? E se, dalle istituzioni pubbliche, la comunicazione cominciasse davvero a fermarsi sugli atti – su come la delega dei cittadini viene in effetti esercitata dentro i palazzi – non sarebbe poi perfino meglio?