Nel 1970 gli iscritti ai tre più grandi partiti italiani (Dc, Pci, Psi) erano, in tutto, più di 3,7 milioni che salirono a 4 milioni (dati wikipedia) 20 anni dopo, quando il vento di Tangentopoli stava per far crollare la cosiddetta “prima repubblica”. Cifre da non prendere come indicatore assoluto di una partecipazione autentica (da iscritto alla Dc ricordo bene quante ambiguità, per essere eleganti, si nascondevano dietro certi tesseramenti. Cosa analoga, specie nelle zone di grande potere rosso, per la sinistra). Ma il dato è comunque interessante.
Interessante anche il raffronto fra il 96% dei votanti alle prime elezioni (giugno 1970) del Consiglio in Regione Toscana e il 48% – la metà esatta – dei votanti alle analoghe elezioni del maggio 2015: se nell’anno di partenza della nuova istituzione, con le grandi speranze riposte e infine sprecate, su 2,5 milioni di toscani ben 2,4 (!) esercitarono il voto, il raffronto con il 2015 è sconcertante (su 3 milioni, a votare siamo andati solo in 1,4. Neppure la metà).
Avevo preparato questi dati – come emblematici, anche se non certo esaustivi, di una partecipazione calata e calante – per un bell’incontro, organizzato a Quarrata dal circolo culturale “Agorà” presieduto da Renata Fabbri, con Antonio Floridia.
Responsabile, in Regione Toscana, proprio delle “politiche per la partecipazione” nonché dell’Osservatorio e dell’ufficio elettorale (un mago dei numeri, di grande esperienza, presidente di SISE, società italiana di studi elettorali, autore di importanti volumi su democrazia deliberativa e democrazia partecipativa), Antonio Floridia non ha tradito le aspettative regalando riflessioni di buona attualità a una platea numerosa (per i tempi) e certo attenta.
Nel cercare il titolo dell’incontro mi era venuto in mente il vecchio verso, in Gaber (1972), sulla libertà che “non è uno spazio libero”. Roba ipercitata, anche a sproposito, tanto da rischiare il rigetto. Ma avevo soprattutto presente un verso, successivo, sull’uomo “che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia” arrivando a trovare “questo spazio solamente nella sua democrazia”. Impossibile, proseguendo il canto (Dio come ci manca, in questo oggi così triste, gente Giorgio e Fabrizio. Ma anche come Enzo e, da poco, come Dario), impossibile non farsi colpire dalla sconfortante attualità dell’uomo “che ha diritto di votare e che passa la sua vita a delegare e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà”.
Ci ha parlato, Floridia, di crisi della democrazia. Una crisi certo “di governabilità” (con il disincanto di tanti cittadini cui corrispondono le tentazioni di populismo e plebiscitarismo, l’uccisione dei corpi intermedi, la tentazione di considerare il voto solo come una “autorizzazione” al comando da parte di un capo unico). Ma una crisi che è anche “di legittimazione” (con la necessità di non smarrire i ruoli attivi per la cittadinanza, con la considerazione che l’uomo solo al comando non porta mai al bene sperato, con un bene comune costruibile meglio attraverso la partecipazione diretta dei cittadini, con una “mediazione” mai riducibile a parolaccia perché la moderna democrazia si fonda anche sul confronto fra i corpi intermedi. Mai sulla loro uccisione).
Democrazia e partecipazione, insomma, sono conciliabili. E le risposte “decisioniste”, su cui sono in tanti anche fra noi a puntare e che oggi sembrano prevalere, non valgono – per efficacia e modernità concrete – quelle “partecipative”.
Parecchi, anche nel confronto, gli interrogativi. Pure sui luoghi e sui metodi per educare alla partecipazione nell’era della “rete”: ambiente che mette a disposizione tante opportunità, ma anche tanti ostacoli, per quel cittadino che abbia ancora voglia di dire “no” a chi vorrebbe chiuderlo nel tragico recinto ipotizzato dal cantautore. Dove l’unica libertà – per noi, ridotti a “signori del pubblico” – consiste “nel farsi comandare” da qualche moderno “uomo” che qualche oscura “provvidenza” ci ha inviato e che possiamo solo applaudire. Mai disturbare perché, come noto, “sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale”. Loro, i potenti, “diventan tristi se noi piangiam”.