Quel “non ci indurre in tentazione” – messo alla fine della preghiera più nota che tutti, atei o indifferenti compresi, conosciamo a memoria – in effetti pareva nascondere una sorta di equivoco o di contraddizione. Quasi come se il “Padre” si divertisse a tendere tranelli a noi figli per spingerci verso il male, per farci cadere. Ma così non poteva essere, se quel “Padre” è amore. Si è mai visto un babbo che si diverte a far cadere la propria piccola creatura?
Da oggi, prima domenica di Avvento nell’anno della pandemia, la traduzione italiana è cambiata: il “non ci indurre in tentazione” viene sostituito da un più coerente “non ci abbandonare alla tentazione”. Da una sorta di responsabilità di Dio nel volerci (sic) far cadere in errore alla responsabilità nostra nel chiedere aiuto affinché non si sia “abbandonati” a una tentazione verso cui noi, in primo luogo, siamo responsabili perché spesso capita, anche ai migliori, di cascarci. Nella tentazione. (Per carità: non sono né teologo né esperto. Il mio è solo un pensiero in libertà).
Chi è stato anche una sola volta a Gerusalemme ricorderà com’è singolare quella chiesa, intitolata al Padre Nostro, dove la tradizione colloca l’episodio evangelico del Cristo che insegna ai discepoli quella preghiera: e ricorderà le targhe sui muri, in decine di lingue e dialetti, che la riportano.
Da oggi, nelle nostre chiese, non è partita solo questa novità, ma anche altre, in particolare nel Messale. Non è il primo cambiamento di traduzione e non sarà l’ultimo. Un invito, per chi ne ha voglia, a utilizzare un Avvento così strano anche per rileggere, con calma, preghiere in genere mandate a mente (esempio il Credo).
Francesco, nel suo Concistoro, ieri ha ricordato ai cardinali – nuovi e vecchi – che devono essere “pastori” non semplici “eminenze”. E qui non c’è bisogno di spiegarla troppo, la differenza.