“Il lavoro va remunerato in modo tale da garantire i mezzi sufficienti per permettere al singolo e alla sua famiglia una vita dignitosa su un piano materiale, sociale, culturale e spirituale … Occorre dunque adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita”.
Parole forti, quelle del dicembre 1965. Contenute in uno fra i documenti fondamentali (la costituzione apostolica “Gaudium et spes”) del Concilio Vaticano II. Parole che sono precedute da altre (“E’ compito della società, in rapporto alle condizioni in essa esistenti, aiutare da parte sua i cittadini a trovare sufficiente occupazione”) e seguite da altre ancora (“Ai lavoratori va assicurata inoltre la possibilità di sviluppare le loro qualità e di esprimere la loro personalità nell’esercizio stesso del lavoro”.
Parole che rimandano a quella dottrina sociale della Chiesa, a quel pensiero sociale che anche in un oggi così liquido e destrutturato potrebbe dare una mano a una politica così fragile e carente proprio nella “P” maiuscola. Parole – e ce ne sono tante altre – che oggi appaiono sia rivoluzionarie sia lontane.
Bene hanno fatto gli organizzatori (Pastorale Sociale della diocesi di Pistoia e parrocchia di Bonistallo in Poggio a Caiano) a metterle in apertura di una bella serata che si è svolta proprio nell’antica chiesa di Santa Maria sul colle di Bonistallo: una serata dedicata al “lavoro che c’è” ma anche al “lavoro che non c’è” e che ha visto l’alternarsi di preghiere e testimonianze, letture e interventi a 7 mesi dalla Settimana Sociale dei cattolici italiani tenuta a Cagliari, nell’indifferenza dei grandi media ma forse anche della stessa Chiesa, per affrontare la (triste) situazione del lavoro oggi.
Assai giustificato “l’imbarazzo” (il prof. Luca Gori ha usato questo termine) del costituzionalista nel ricordare come la Carta fondamentale, in tanti suoi articoli, parli del lavoro in una Repubblica non a caso “fondata sul lavoro”. Del tutto evidente, infatti, la distanza fra le nobili aspirazioni e la realtà di un oggi che vede il lavoro sempre più destrutturato, assente, disumano.
Non è un caso che il concetto conclusivo del professore (“La sfida è contribuire a umanizzare ogni lavoro e ogni lavoratore”) sia stato raccolto dal vescovo Fausto Tardelli (“Umanizzare il lavoro che c’è per creare solidarietà, bellezza, gioia”) che si era soffermato non solo su aspetti teorici (“Il lavoro come valore, come diritto, come dovere”) ma pure sulle grandi sfide per un presente complesso anche nella vasta diocesi toscana: creare lavoro, insegnare a lavorare e, appunto, umanizzare il lavoro che c’è.
Una diocesi assai articolata, anche in tema di lavoro: dall’abbandono di una montagna piena di (teoriche) possibilità per un rilancio sostenibile all’azienda globalizzata che nella città capoluogo produce treni, da un vivaismo che alterna ossigeno e veleni a un post tessile e a un post “Leonardo” in aree già pratese o empolesi.
La serata, condotta da Selma Ferrali e da don Cristiano D’Angelo, ha visto testimonianze di imprenditori e lavoratori per concludersi con la preghiera, di papa Francesco, nella “Laudato si”: quella che chiede a “Dio onnipotente” di “illuminare i padroni del potere e del denaro perché non cadano nel peccato dell’indifferenza, amino il bene comune, promuovano i deboli e abbiano cura di questo mondo che abitiamo”.
Fra le testimonianze, una ha colpito in modo particolare: una giovane donna, che dopo tanti anni passati in ruoli amministrativi, ha revisionato la vita puntando sull’agricoltura di qualità nell’armonia delle colline del Montalbano. “La crisi – ha detto raccontando la sua storia di una nicchia capace di vendere nella globalizzazione – la crisi va battuta sfidandola”.
Sarebbe importante, e forse utile, se le Chiese locali, al di là dei campanili rispettivi, unendosi in innovative sinergie sul quel territorio che unisce Bagno a Ripoli con Serravalle e magari anche Pescia, proseguissero confronti e riflessioni. “Il lavoro va remunerato in modo tale da garantire i mezzi sufficienti per permettere al singolo e alla sua famiglia una vita dignitosa su un piano materiale, sociale, culturale e spirituale … Occorre dunque adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita”.
Chi, nel deserto odierno, è più in grado di ancorarsi a parole come questa? Chi, ancora, pensa che sia davvero il processo produttivo a doversi adattare alla persona quando ormai per tutti, in pratica, è normale che debba essere vero esattamente il contrario?