Ero curioso di capire come Mario Capanna (proprio lui: il leader della contestazione di mezzo secolo fa, oggi ecologista e contadino) avrebbe affrontato il tema (la morte) che padre Guidalberto Bormolini gli aveva affidato per una conversazione a Pistoia, in Sala Maggiore del Palazzo Comunale, nell’ambito di un ciclo dedicato ad “Abbattere il tabù della sofferenza e della morte”.
Ero curioso di vedere Capanna alle prese con la riformulazione di due motti sessantottini (“Diamo l’assalto al cielo … Il vero realismo che chiede l’impossibile, anche oltre la morte”) pensata da un monaco come Guidalberto, abituato, con i suoi “Ricostruttori”, a stupire e spiazzare su temi assai poco … politicamente corretti.
Una curiosità condivisa con un gruppo (davvero piccolo) di presenti, a dimostrazione di quanto sia difficile oggi riflettere sulle frontiere della morte (qualche giorno prima, parlando a Firenze su tutt’altro tema, mi era venuto di accennare a questo appuntamento pistoiese con Capanna: una persona, adulta e già impegnata in politica su posizioni “progressiste”, non ha avuto remore, dopo le mie parole, a ravanarsi pubblicamente nel cavallo dei pantaloni con il più classico fra i gesti di una scaramanzia tanto volgare quanto inutile).
Curiosità premiata. Da posizioni chiaramente laiche (“parlo da laico, certo non insensibile alla dimensione religiosa”), Capanna ha tirato fuori concetti che di maggiore avrebbero meritato non solo la sala ma pure il pubblico. Fino a introdurre il ricordo di quel sessantotto per il quale uno come lui sarà sempre ricordato.
Le speranze di quel periodo – ha detto in un passaggio – si abbinarono alla diminuzione del numero di suicidi (ma anche di omicidi, compresi quelli di stampo mafioso). E questo non possiamo non confrontarlo con la circostanza che, in mondo dove è difficile trovare speranza, la prima causa di morte fra i giovani, 50 anni dopo, sta proprio nel suicidio.
La speranza nel futuro che allora c’era, paragonata con l’incubo che oggi in molti, liberati da fedi religiose o civili e abbagliati dai consumismi, provano verso il futuro: giovani, oggi, “falcidiati dall’assenza di speranza”.
E davanti all’attesa della morte – tappa inevitabile, davanti alla quale proviamo così timore da evitare perfino di dirla, quella parola – è arrivata la “ricetta” di Capanna.
“C’è un solo modo per arrivarci bene, alla morte: vivere bene, lavorare perché la nostra vita sia felice. E si è davvero felici solo quando si è soddisfatti di sé stessi e del nostro buon rapporto con gli altri”. Vivere, dunque, “con uno spirito di fratellanza” cercando “sia pure con i tanti nostri limiti di fare del bene, tagliando l’erba a ogni violenza, vivendo in pace con sé stessi, evitando i rancori nei confronti degli altri, superando il materialismo volgare in cui siamo immersi, definendoci non in base a un nemico (gli immigrati, gli zingari, i diversi …) ma in rapporto al valore inenarrabile di ogni esistenza, compreso il filo d’erba”. Considerazioni che certo attengono alla sfera privata, ma a cui non sfugge la sfera pubblica. Parole che, ad esempio, chiedono un ripensamento della politica sui grandi temi di un oggi così complesso.
Una visione “olistica”, starei per dire “religiosa”, quella del laico Capanna, spesso caratterizzata da rimandi al pensiero di Emanuele Severino. Non c’è ovviamente bisogno di arruolarlo qua o là, il contestatore che mezzo secolo fa infiammava le piazze. A me è bastato farmi provocare.
Il prossimo appuntamento, nel ciclo pistoiese su sofferenza e morte, è con lo scrittore Luca Doninelli. Con “Oltre le aspettative. Morte e resurrezione” il vincitore del Campiello e candidato allo Strega, sarà a Pistoia (sempre in Palazzo Comunale), mercoledì 21 novembre. Ore 18.