Chissà come sarebbe andata quella storia (la storia dei tesori d’arte che i nazisti stavano trafugando dall’Italia) se un semplice custode della Villa Medicea di Poggio a Caiano – dove molte di quelle opere, da Firenze e non solo, erano state nascoste per il passaggio della guerra – non avesse fatto quel gesto.
Tutto sarebbe finito come poi finì (quelle casse vennero ritrovate a pochi km dal Brennero e a fine guerra riportate a Firenze)? Il gesto di quel servitore di uno Stato allora a pezzi non avrebbe inciso nella più grande storia della tragedia in corso?
Mai, ovvio, potremo saperlo. Ma quel gesto ci avvisa, in ogni caso e con un valore pressoché eterno, sull’importanza di fare il proprio dovere.

Il custode si chiamava Aldo De Luca. E’ morto nel 1992. Nel 1944 aveva 35 anni. Capo custode della Villa Medicea di Poggio a Caiano (la villa voluta da Lorenzo il Magnifico), si trovò a essere responsabile di un autentico tesoro dell’arte italiana: centinaia di capolavori (Caravaggio e Donatello, Botticelli e Perugino, Michelangelo e Piero della Francesca …) da Firenze avevano preso la via del Poggio, pochi chilometri in linea d’aria, per essere messe al sicuro.
E di lì a poco, in quello spazio, nel 1944, con il passaggio del fronte e il ritiro dei tedeschi, si rifugiarono anche centinaia di poggesi: pietre vive, impaurite da ciò che poteva accadere, aiutate dalle suore Minime del Sacro Cuore in una complicata coabitazione con capolavori dell’arte.
La storia è nota. Di recente è stata di nuovo raccontata in un fascicolo (Siamo in guerra, non c’è niente da fare) prefatto da Giacomo Mari, già vicesindaco al Poggio, curato da Andrea Lottini e voluto dall’associazione culturale poggese Diapason (guidata da un team di sole donne).
Cosa fece dunque il capo custode della Villa, Aldo De Luca? Oltre a impegnarsi nella custodia di quel ben di Dio tenendo contatti con i musei (Uffizi, Pitti …) che avevano mandato lì quelle opere, quando i nazisti misero quei capolavori dentro grandi (e improvvisate) casse per – dicevano loro – “portarli al sicuro”, Aldo si rese protagonista di un piccolo ma significativo gesto.
Lui, che davanti ai grandi fatti non contava nulla. Lui, solo davanti al potere di soldati che stavano scappando e dunque erano ancora più incattiviti. Lui, proprio lui, tentò di bloccare ciò che non è scorretto definire un “furto” (su molte di quelle casse stavano scritte iniziali per Lottini inequivocabili: “A.H.” e il nome di una città tedesca – Linz – dove Adolf Hitler avrebbe voluto il più grande museo d’arte al mondo).
E dopo che le sue fragili obiezioni (“queste opere sono sotto la tutela della Santa Sede”) si confermarono inutili, De Luca rifiutò di girarsi dall’altra parte.

In troppi, nel ventennio, si erano girati dall’altra parte. In troppi avevano pensato al “tengo famiglia”. Ed ecco De Luca. Pretende una ricevuta. Un semplice, banale, foglio. Un documento firmato da qualche capo dell’esercito tedesco, magari pure irritato per tale richiesta, capace di dimostrare quante e quali opere fossero state nascoste in quelle 58 grandi casse di legno, montate su camion in fuga per traversare una parte d’Italia dove la guerra ancora infuriava.
“Disciplina e onore”, avrebbe poi scritto un articolo della Costituzione – spesso citato nei convegni e spesso poco praticato nei fatti – riferito ai titolari di cariche pubbliche. Perché lui, Aldo, in quel momento aveva la responsabilità di quei tesori. E sapeva di dover poi renderne conto.
Piccolo gesto di onore. Come il gesto, parallelo, di segnare su un foglietto le targhe delle automobili su cui scappavano, con il tesoro, i gerarchi nazisti.
Un piccolo gesto di ordinaria dignità. Che poi, al ritrovamento delle casse, ebbe una sua importanza. E per il quale l’oscuro De Luca, servitore di uno Stato che non c’era, merita di essere ricordato.
Perché atti di eroismo possono essere anche ordinari. Basta avere la dignità – e talvolta anche il coraggio – di non girarsi dall’altra parte.

Nella sala consiliare di Carmignano (il Comune limitrofo al Poggio, dove si trova – in frazione Artimino – un’altra notevole Villa Medicea: quella dei “cento camini”), quella amministrazione comunale ha voluto presentare il fascicolo di Lottini, come inizio per le manifestazioni dedicate al Giorno della Memoria. Fascicolo già presentato lo scorso anno al Poggio (ma senza il patrocinio di quel Comune).
Una serata di grande suggestione perché il racconto su Aldo De Luca – presente il nipote Francesco – è stato adesso accompagnato dalla presentazione, diciamo immersiva, di tre fra le opere d’arte che, tolte dai musei fiorentini e portate nella villa di Poggio, stavano nelle casse trafugate dai nazisti per quel tale “A.H.”.
Per questo le donne di “Diapason” si sono alleate con un’altra associazione culturale (“Marginalia”) intervenuta con una guida turistica, Vania Fanciullacci, e con un docente, Davide Casarosa, capaci di far innamorare al racconto di tre capolavori: Giuditta e Oloferne (Artemisia Gentileschi), La Madonna della seggiola (Raffaello), L’adorazione dei Magi (Sandro Botticelli).
Un monito di qualità, dalle terre medicee, per riflettere sui danni che la violenza arreca in primis alle “pietre vive” (le persone in carne e ossa). Ma anche ad altri tipi di “pietre”. E di opere.

Rientrati a casa e accesa la tv, impossibile non commuoversi davanti ai pezzi di grande giornalismo, curati da Francesca Mannocchi, sui bombardamenti a Gaza. E sui disastri arrecati, da ogni guerra, anche ai tesori dell’arte. Non a caso la prefazione al libro di Lottini è di Giulia Ballerini, storica dell’arte.
Prefazione dedicata alla “tutela dei capolavori in tempi di guerra”. Perché – scrive Ballerini citando la Carta istitutiva del Tribunale di Norimberga – sono “crimini di guerra”, fra gli altri, anche il “saccheggio di proprietà pubbliche e private, gratuite distruzioni di città, paesi e villaggi o la devastazione non giustificata dalla necessità militare”.
Esatto. Crimini di guerra.