Devo a Paolo Ruffini, direttore di rete in Tv2000, una buona sintesi sull’eterno lavoro del giornalista. L’ha riferita, ricorrendo alla naturalezza del suo stile pacato che poi ha trasferito nella “tv dei vescovi” (una tv che se la guardi l’apprezzi. Molto meno … “clericale” di tante altre emittenti, visto che si può essere “clericali” in tanti modi), l’ha riferita, Ruffini, nel recente congresso nazionale dei giornalisti cattolici, a Matera.
Il nostro compito di giornalisti credenti – ecco la sintesi – è “saper vedere ciò che altri non vedono, mettere in rete ciò che altri scartano, essere sale e lievito che non addormenta ma aiuta conoscenza e trasformazione”. Per carità: niente di nuovo, compresa la battuta precedente (“raccontare la realtà e parlare chiaro come dovere etico”) e compresa quella successiva (“siamo chiamati a capovolgere il punto di vista, recuperando magari il linguaggio dei bambini”). Ma sentirle fare, certe affermazioni, aiuta: specie se poi le teniamo presenti rientrati da congressi, convegni e amenità simili.
Così come, poco prima, aveva aiutato il consulente ecclesiastico (già: come associazione ecclesiale l’Ucsi ha un suo consulente ad hoc. Adesso è un gesuita, scrittore a “La Civiltà Cattolica”: padre Francesco Occhetta) nel riportarci la prima delle quattordici “regole del discernimento” scritte dal fondatore dei gesuiti, Ignazio da Loyola. Roba per nulla edificante o moralistica: roba seria. Sentite qui: “Quando vai di male in peggio, il messaggero cattivo di solito ti propone piaceri apparenti facendoti immaginare piaceri e godimenti, perché tu persista e cresca nella tua schiavitù. Invece il messaggero buono adotta il metodo opposto: ti punge e rimorde la coscienza, per farti comprendere il tuo errore”.
C’entra parecchio, mi pare, con il modo di esercitare la professione. E può valere, così come la sintesi di Ruffini, per tutti: a prescindere dal grado, e dal tipo, di fede religiosa. Ma può valere anche per chi, del lavoro di un giornalista, usufruisce. Intendo il cittadino.