“Possiamo e dobbiamo giudicare situazioni di peccato – violenza, corruzione, sfruttamento eccetera – ma non possiamo giudicare le persone, perché solo Dio può leggere in profondità nel loro cuore”. Nulla di nuovo in queste parole di Papa Francesco (ricordo, per esempio, la fondamentale – e nel clima di allora innovativa – distinzione fra “errore” ed “errante” ai tempi della condanna al comunismo). Ma il fatto che Francesco le abbia inserite nel messaggio per la Giornata 2016 delle comunicazioni sociali (la 50ma!) consente di “applicarle” al mondo dell’informazione, al lavoro dei giornalisti. “E’ nostro compito – prosegue il messaggio sul rapporto fra comunicazione e misericordia – ammonire chi sbaglia, denunciando la cattiveria e l’ingiustizia di certi comportamenti, al fine di liberare le vittime e sollevare chi è caduto. Il Vangelo di Giovanni ricorda che “la verità vi farà liberi” … E’ nostro precipuo compito affermare la verità con amore”.
Per chi ha scelto questo mestiere, e magari tenta pure di farlo tenendo conto oltre alle regole deontologiche interne anche le indicazioni evangeliche, non c’è dunque limite nella ricerca della verità (puntare alla “verità sostanziale dei fatti” è il senso primo e ultimo della professione). Guai dunque se un giornalista non “giudica” – racconta, commenta – ciò che può anche rivestire “situazioni di peccato”: guai a non raccontare ciò che si vede, guai a nascondere qualcosa di ciò che si vede magari perché è conveniente nascondere. Ma questo, il mestiere di ogni giorno, può anche essere fatto, nei confronti delle persone, in modo “misericordioso”. E “misericordia” – si badi bene – è concetto meno bigotto, più laico, di ciò che all’apparenza non possa sembrare.