Gli ho sentito dire due cose che meritavano la “fatica” di stare in piedi quella cinquantina di minuti in una sala troppo piccola dentro il nuovo grande auditorium romano (quello della “nuvola”) in uno dei giorni di “Più libri più liberi”. Chi ha detto le due cose, su giornalismo e dintorni, è stato Domenico Iannacone (quello dei “Dieci comandamenti” su Rai3) che proprio di giornalismo, in particolare di giornalismo televisivo, stava chiacchierando con Roberto Amen: collega Rai che ha scritto in un libro (“In onda“) i suoi ricordi sulla professione (ha seguito, fra l’altro, Vermicino e l’attentato a Giovanni Paolo II. Ha vicediretto “RaiParlamento”).
“Ho introdotto la pausa”: questa la sottolineatura di Iannacone usata per spiegare il suo modo di fare giornalismo e di entrare in sintonia con i protagonisti, spesso “minimi”, delle storie raccontate. Chi lo segue – ad esempio ora, nei “Dieci comandamenti”: una fra le trasmissioni Rai in assoluto più belle – capisce il senso della frase. In quelle “pause” trova spazio la vera capacità di capire, attraverso la piccola storia raccontata, qualcosa di assai più grande. “Pause” di commozione, di partecipazione, di coinvolgimento. “Pause” che portano a riflettere.
Ma anche davanti a un’altra frase ho provato gusto: parole che rimandano a un possibile modo, forse l’unico, in grado di salvare la professione. “Oggi – ha detto Domenico – c’è bisogno di guardare nella direzione opposta rispetto a quella più battuta”. Verissimo. Specie quando è la velocità della rete a far invecchiare subito ogni notizia: c’è dunque bisogno di “non bruciare” le storie, di “non farle morire”, di “tornarci sopra” dopo qualche tempo, di approfondirle sotto angolature diverse, di intercettare e raccontare anche “le storie minime, quelle che altrimenti si sarebbero perse per strada”. C’è bisogno di cambiare, o interpretare in modo “altro”, quei criteri di notiziabilità alla base di una professione oggi così in crisi di senso. In apertura era stato Roberto a mettere un altro bel paletto (“Nella notizia non dobbiamo mai cercare la prova del nostro pre-giudizio”) forse utile sulla complicata strada di un mestiere credibile.
E a proposito di buone notizie (“difficili da raccontare”): in un SERT di Scampia anni fa Iannacone intervistò un ragazzo. “Possiamo abituarci a tutto – gli disse – ma non alla morte”. Adesso l’ex ragazzo ha trovato una strada “altra”. Guida una casa editrice (“Marotta&Cafiero“. Era in fiera). Ha voluto spostare la sede: da Posillipo a Scampia.
Ci sono andato, nello stand G05. Ho chiacchierato con i giovani della “Marotta” e comprato qualche libro. In uno (“La cella zero”) la storia di un ex spacciatore napoletano: un terzo della sua vita passata in carcere (22 anni in 20 prigioni diverse); ora guida una associazione che solo a Napoli potevano chiamarla così (DON: Detenuti Organizzati Napoletani). Si batte per i diritti dei carcerati e per lo loro inserimento lavorativo. Dalla sua storia, minima, è stato tratto un lavoro teatrale.