I funghi, in questo ultimo libro di Federico Pagliai, sono un pretesto.
Si capisce bene che tra il “montanaro indigesto” chiamato Federico Pagliai e questo, delizioso (odoroso, talvolta costoso) prodotto di madre natura, il fungo, l’aspetto principale non sta nella raccolta ma in quello che accade prima: appunto “l’andar per funghi”.
Ma c’è dell’altro: Pagliai parla di funghi perché ha voglia di parlare più in generale. Parlare di montagna, raccontare un ambiente che lui conosce bene: parlarne negli aspetti ecologici e in quelli economici, rifiutarne narrazioni nostalgiche e puntare sulla difficile concretezza di un oggi che intristisce.
Ma anche ipotizzare soluzioni nuove, strade diverse, tentativi di reazione che mettano insieme sostenibilità e concretezza.
E’ un libro (“Montanari indigesti. Effetti collaterali dell’andar per funghi”, Pendragon, 2018, euro 15) che Pagliai definisce “urticante”. E urticante lo è sul serio, almeno nel senso che centra l’obiettivo principale: punta a far discutere perché prende posizione; e prende posizione su alcuni argomenti (la inadeguatezza della legge toscana sulla racconta di funghi e di prodotti del sottobosco, i costi del soccorso alpino, la mancanza di cultura davanti al valore di boschi e prati, una dura opposizione contro nuovi impianti di risalita, le non poche perplessità sul progetto Dynamo in materia di oasi) che, anche grazie a queste pagine di Pagliai, hanno finalmente cominciato ad riavere una loro attualità.
Urticante – mi è capitato di dire in alcune presentazioni già fatte – ma anche commovente e sapiente. E anche divertente (davvero tali sono, per esempio, le pagine sui “funghisti” – in genere quei cittadini che ignorano l’ambiente e puntano al sodo: il prodotto fungo – che entrano nei boschi agghindati di tutto punto, tecnologici e ignoranti, capaci solo di rovinano l’ambiente e, magari di scivolare nel primo dirupo).
La commozione a me è venuta sia davanti ad alcuni passi del miglior Pagliai sui segreti del bosco, sia davanti a due passaggi nei capitoli finali: quelli che Federico affida ad alcuni amici.
Il Paolo Cinotti antico fungaio dei monti pistoiesi: ha smesso di “andar per funghi” proprio per colpa di ciò che vedeva, di imbarbarimento caciarone, nei boschi. E apre il suo capitolo con una frase (“Non so scrivere, ma ho imparato a leggere le righe scritte dalla natura”) che fa invidia a Beatrice la Pastora (o anche a don Lorenzo Milani).
Ma anche Yuka Ferrari, fungaio giovane e pieno di ideali, non scherza a proposito di commozione fatta provare: quanto ricorda l’insegnamento, antico, della nonna che lo formò a una corretta raccolta del fungo. “Prima di raccoglierlo – questo il consiglio della vecchia – prima di raccoglierlo fermati. E godi il dono che ti fa la natura”.
Che sia anche “sapiente”, il libro di Pagliai, non me lo toglie dalla mente nessuno. Si basa non solo sull’amore, e sulla passione, ma anche sulla conoscenza. Si basa ad esempio su un questionario che lo stesso Federico, con pochi amici, due anni fa si inventò a proposito del rapporto “montanari/montagna/funghi/ecccetera”: 14 domande, centinaia di montanari coinvolti, migliaia di risposte per una sapienza davvero “dal basso”.
E poi altri due aspetti di conoscenza, sempre bene raccontati negli ultimi capitoli: il cercare “soluzioni altrove” (esempio in Casentino e nell’Appennino Parmense) per capire come in altre zone si è affrontato il piccolo/grande problema della raccolta funghi riuscendo a non tradire la centralità del bosco e quella dei montanari.
Per non parlare del bel capitolo, scritto dal notaio Antonio Marrese, sugli usi civici (“non retaggio del medio evo, ma altro modo di possedere” secondo l’efficace espressione del costituzionalista, e presidente emerito della Consulta, Paolo Grossi).
Basterebbe solo questo capitolo, sugli usi civici, per invitare amministratori pubblici locali e politici centrali, cittadini di pianura e cittadini di montagna, ad approfondire e studiare, proseguire e concretizzare.
Un libro, insomma, da prestarci attenzione raccogliendo le non poche provocazioni dell’autore. Un libro che racconta i monti e i crinali fra Pistoia, Bologna e Modena ma che – bene introdotto da Luca Calzolai, direttore della rivista del CAI, Club Alpino Italiano – non sfiguererebbe nelle biblioteche degli infiniti borghi appenninici, dalla Liguria alla Calabria, oggetto di spopolamento e abbandono.
Ha a che fare con uno fra i temi oggi dimenticati ma che presto dovrà, inevitabilmente, avere una sua forte e strategica centralità: trovare strade nuove per far tornare le persone ad abitare la dorsale appenninica. Ed è questo (altro che i pur fondamentali funghi) il retrogusto di tutte queste pagine.
Federico Pagliai sintetizza due soluzioni: una (la montagna come “flusso”) che giustamente respinge e l’altra (la montagna come “luogo”) su cui ci invita a camminare.
Una montagna insudiciata da un turismo di rapina, che toglie ma non restituisce, e una montagna capace di dialogare con le più vere, e misteriose, radici della sua antica e moderna identità. Una montagna che non ne può più delle inutili nostalgie (del “com’eravamo belli e bravi tanti anni fa”) ma che vorrebbe anche capirci qualcosa in più rispetto a operazioni potenti e poco trasparenti che si affacciano.
Urtica, il libro di Federico. Urtica perché fa pensare. Puoi convenire con lui, in tutto o in parte. Puoi anche dissentire. Ma questo è un libro, comunque, tutto da leggere.