“Lacrimando pose questo marmo“. Era emigrato nelle Americhe, questo Giuseppe che il 23 ottobre 1867, piangendo lacrime d’amore, pose un marmo ancora oggi visibile, nel portico della chiesa parrocchiale, sulla collina di Bonistallo (Poggio a Caiano).
Lo collocò, il marmo, “sopra le ceneri di Carmela Fazzi“, la sua giovane (24 anni) “consorte” originaria di Borgo a Mozzano, in Lucchesia, “per fiero morbo rapita“. Uccisa, cioè, da chissà quale virus circolante in un’Italia unita da poco.
Non mancano di fascino, queste lapidi ottocentesche e in loro colpisce l’eleganza delle parole incise: uno stile ricercato e severo, molto lontano dai canoni odierni. Anche perché oggi nessuno più scrive frasi sulle tombe, al di là di un frettoloso nome e cognome (le frasi qui riportate lo sono in modo integrale, tranne l’aggiunta di qualche segno di punteggiatura, sui marmi assente, ndr). Al netto delle ironie possibili su bravura, probità, onestà di chi è morto, la retorica può anche lasciare spazio ai racconti di vite vissute.
Pensiamo “alla cara memoria di Annunziata Coli” morta il primo settembre 1875 dopo aver vissuto “VI lustri” e dunque ancora giovane. A piangere posando “questo marmo” ci pensarono “gli avi Leopoldo e Carolina Allori” che non ebbero problemi a definirla, Annunziata, “adorna di quelle virtù che le spose, le madri, fanno care“.
Per precisare che Annunziata era passata a miglior vita, la lapide prosegue con eleganza: “abbandonava la terra, più che di sé stessa, pensosa dei pargoletti e del marito Giovanni Allori“. E come a volte capita pure oggi, finendo giustamente sui giornali come esempio di vera storia d’amore, il marito di Annunziata “oppresso dal dolore di tanta perdita, dopo XIX giorni riabbracciava in Dio la consorte desideratissima“. L’alfa e l’omega fanno da corona, in alto, a una croce.
Lo stesso anno, quel 1875, al Poggio morì il veneto (nato a Portogruaro) Felice Ferroli. Era carabiniere (“Alla benemerita legione dei RR Carabinieri 13 anni iscritto“) e al Poggio era stato brigadiere. Qualche anno dopo “i fratelli e gli amici dolenti” vollero deporre le ceneri in quella che era la chiesa del Poggio. Vollero farlo “a testimonio di affetto e incitamento a virtù“.
E vollero ricordare come, nello svolgimento del suo ruolo, Felice “la grave severità temperò col giudicio” avendo “la stima de’ subalterni la benevolenza di tutti“. Una “polmonite biliosa” (la privacy allora non faceva danni, ndr) lo colse “quando sperò men dura la vita” e morì “non ancora compiuto il settimo lustro“. E uno se lo immagina ancora oggi, quel baldo carabiniere, “amico leale e generoso“.
Chi morì vegliardo, non per i criteri di oggi ma per quelli di allora, fu Luigi Fortini. Di anni ne aveva 86. Furono “i figli inconsolabili” a porre quella lapide “con amarissime lacrime” rivolgendosi direttamente, con una “eterna requie a te, Luigi Fortini“. Era il 3 dicembre 1875 e Fortini era stato muratore. “A te che la non breve vita traducesti industrioso, dirigendo murarie opere di tua arte, sollecito cultore degli onesti guadagni, lauto ne’ poveri di fede, antichissimo premio ai buoni“. Elegante anche la chiusura (“La consapevolezza dell’animo tranquillo ti accompagnò in seno all’eternità“).
Qualche anno dopo, il 10 maggio 1879, qui trovò sepoltura anche Augusto Conti (“nato a Castrocaro di antica e illustre schiatta“). Il nostro Augusto combattè “strenuamente” con il “duce Garibaldi nelle guerre della indipendenza italiana“. Ma fu anche “pittore abilissimo” con altre quattro caratteristiche affidate al marmo: “schivo di ogni adulazione, fervido di cuore, leale e intemerato“.
Vicino troviamo le ceneri di un altro muratore “del Poggio a Caiano“. Leopoldo Cirri. “Sua arte fu il murare” e chissà quali opere realizzò in quel piccolo borgo attorno alla villa di Lorenzo. “Religione, onestà, lavoro furono suo patrimonio e nell’amore dei figli ebbe la ricompensa delle cure prodigate ai vecchi genitori“. Prima dell’invito finale a “pregate pace all’anima sua” il marmo testimonia che “dopo lunga malattia tornò a Dio il 6 settembre 1882 di anni 78“.
Qualche decennio prima, ma assai più giovane (“trentenne appena“) qui trovò il riposo eterno Gaetana Barghini. Sul marmo è lei stessa a presentarsi. “Fui consumata dai dolori della vita, le mie osse riposarono sotto questa pietra il 2 gennaio 1846“. Per concludere con un invito. “Voi che mi amaste tanto e voi che siete pii a’ defunti: non passate oltre senza pregar pace all’anima mia. Quando sarete cenere vi ritroverete la pia preghiera“.
Doveva essere molto giovane Ida Masi quando sorella morte le si avvicinò implacabile. Nel 1872 “i genitori dolenti” fecero incidere sul marmo una grande croce con sotto parole tenerissime. “La colpa non appassì, la sventura non corrose il fior di tua vita o giovinetta. Ma, non sbocciato ancora, lo colse l’angelo dell’innocenza e si dischiuse nel cielo“.
Tenera anche la storia d’amore che si intuisce in una lapide vicina. La collocò un marito, Luigi Giannini, non solo “sposo desolatissimo” ma anche (sic) “erede testamentario“. Era il 1843. Sovrasta tutte le parole l’immagine di due mani che si stringono fra loro. Rimasto vedovo, Luigi “volle questo monumento a testimonianza di gratitudine e di affetto“. Lo volle “a ricordanza di Marianna Cintelli, di anni venti“. La giovane sposa “si addormentò nel bacio di Gesù“.
Un dettaglio commuove: “il primo del matrimonio fu l’ultimo di sua vita“. Appena sposata, dunque, passò a miglior vita, con una sofferenza che durò pochi mesi “Cinque mesi i dolori d’invincibile morbo rassegnata sostenne confortata da religiose“. Separato da una riga tracciata nel marmo, ecco un altro pensiero. Stavolta è Marianna a rivolgersi al marito. “O amato Luigi: cessa dal pianto. Dalle tempeste della vita ritornai in seno al creatore“.