Disobbedire la paura, obbedire l’onore. Devo a Mario Lancisi – giornalista e scrittore, autore di molti libri su don Lorenzo Milani, l’ultimo dei quali, per Laterza, si intitola “Processo all’obbedienza” – devo all’amico Lancisi lo spunto per rifletterci sopra. Cercando di attualizzare.
Presentava il suo libro in una notevole libreria fiorentina, la “Salvemini”: luogo zeppo di fascino con migliaia di volumi ovunque. E aveva chiesto, non solo a me, di parlarne “cercando di attualizzare” la vicenda dello scontro fra don Milani e i cappellani militari.
Fra i tanti spunti, mi sono lasciato tentare proprio da quello più logico: la disobbedienza che vide l’oggi tanto osannato prete di Barbiana condannato dalla magistratura italiana, 52 anni fa, anche se con un reato, come si legge in sentenza,“estinto per la morte del reo”. E pure io, come Lancisi e come chissà quanti altri, mi trovo a riflettere su questa definizione (“reo”) che don Milani certo non meritava, ma che ancora si trova bollata in un documento della nostra giustizia (chissà se mai, qualcuno, ha pensato a chiedere una revisione formale di quel processo).
Quando si svolsero quei fatti, fra il 1965 e il 1967, chi scrive svolgeva … funzioni di adolescente sui monti di Pistoia. Nella chiesa del paese c’era, e c’è ancora, in alto, una scritta (“Timete Deum”) che il Concilio Vaticano II stava interpretando in modo assai diverso. Per me, e per molti ragazzini come me, “obbedire” era la condizione normale. Almeno tre i gradi di indiscussa obbedienza: ai genitori, alla maestra, al parroco (tutti eravamo allegri e scanzonati chierichetti. Bastava un’occhiataccia del proposto per farci tornare nei “ranghi”).
In un cinquantennio i mutamenti sono evidenti. E’ successo di tutto, con flussi e riflussi di vario genere. Da qui sono partito per dare un contributo (nel pubblico anche una nipote di don Lorenzo). Ho tentato un decalogo. Mettendoci dentro 5 “cose” a cui, oggi, trovo giusto “obbedire” e altre 5 per le quali mi pare giusto “disobbedire”. Lì, fra le migliaia di volumi della “Salvemini”, ne ho tirate fuori solo due. Le altre, incrociate, mi stanno dentro.
La “cosa” a cui trovo giusto “obbedire” è la Costituzione. In particolare mi è venuto un articolo: il 54, quello che detta un obbligo morale a quei cittadini cui sono affidate “funzioni pubbliche” ma che, prima, estende un tale obbligo a “tutti i cittadini”. Non so se la nostra è quella “più bella del mondo”, ma è di sicuro fra quelle scritte meglio: intendo con una eleganza formale che bene dialoga con il continuo gioco di pesi e contrappesi. Un gioco che ogni tanto (anche in queste ore, in un silenzio preoccupante) politici assai meno colti e adeguati rispetti ai “padri” tentano di violare.
Da sempre ho trovato commoventi quelle due antiche, fuori moda, parole (“disciplina e onore”) che i Costituenti riferirono a chi svolge “funzioni pubbliche”. Dunque anche il ceto politico – quello che oggi ci appare e in effetti è, salvo eccezioni, così incolto e debole, rozzo e impreparato – ha l’obbligo di obbedire, nel servizio allo Stato, “con disciplina e onore”. Retorica? Mica tanto, a pensarci bene.
Ma nel gioco di pesi e contrappesi un altro “dovere” è riservato a tutti noi, cittadini spesso pronti a fare i sudditi: “fedeltà” alla Repubblica e “osservanza” delle leggi, partendo dalla Costituzione. Ce ne dimentichiamo plaudendo demolitori di “casta” che subito diventano “casta”, facendo finta che tutti i guai dipendano dalle “caste”, dimenticando che una democrazia funziona solo se funzionano i cittadini.
E la “cosa” a cui trovo giusto “disobbedire”? Me la sono cavata, in base a un verso di Alda Merini, tentando di portare la riflessione sul concetto di “paura”. Mi è dunque parso urgente, davvero urgente, l’esercizio di “imparare a non aver paura della mia paura” e, dunque, l’imperativo verso una particolare disobbedienza, quella contro la paura.
E mi è venuto di declinarla, questa contemporanea disobbedienza, su quattro versanti: la paura verso chi pensa diverso da me o è diverso da me; quella che blocca tutti, temo non solo gli anziani, davanti alla velocità dei cambiamenti; la paura di una crisi economica che, in un mondo di enormi ingiustizie, oggi colpisce anche un ceto medio dalle cui reazioni c’è molto da temere per la effettiva tenuta della democrazia. E la paura della cultura: l’incapacità di leggere, il timore di approfondire vicende e fenomeni che sempre, al contrario di tweet e spot, sono complessi, ostili agli slogan.
“Obbedire” ai doveri di cittadinanza. E “disobbedire” ad almeno quattro forme di paura, spesso di terrore, così contemporanee: verso chi è diverso, verso il cambiamento, le ingiustizie, i libri.
Non so a che serva tutto questo. Forse a nulla. Ma al gioco di pesi e contrappesi fra il convenire e l’obiettare, l’obbedire e il disobbedire, in una sala coperta di libri, mi ci sono appassionato.