“Chiunque ha i suoi acciacchi, chiunque ha i suoi punti di forza”. Ero curioso di sentirlo, Iacopo Melio classe 1992 (il che vuol dire anni 25) chiamato a Prato con l’Ordine Giornalisti della Toscana, su introduzione di Carlo Bartoli, per chiacchierare su “disabili e media”.
Per diversi anni ho avuto a che fare con quelli come Melio: persone che si muovono su una carrozzina (ma non scrivete “costrette” in una carrozzina perché subito lui vi replicherebbe che quella, la carrozzina, “è il mio paio di scarpe e dunque un mezzo straordinario che mi consente di essere libero esattamente come un paio di scarpe per tutti voi”). Ho avuto a che fare con le loro richieste e anche con le loro spigolosità, con proposte e proteste, con sofferenze e dignità, con le diatribe attorno ai soldi pubblici date alle associazioni oppure direttamente alle famiglia nell’ottica della “vita indipendente”, con il “dopo di noi”.
E ho tentato, anche da giornalista, di riflettere proprio sulla ambiguità delle parole che usiamo per definire chi è in queste situazioni: e, dunque, sul politicamente corretto che ad esempio impedisce di chiamare “cieco” una persona che non vede oppure “sordo” una che non sente mentre obbliga (o obbligava: perché tutto, in effetti, muta con grande velocità) a definire “diversamente abile” un “disabile”. Con gli esempi che potrebbero proseguire: bambini “speciali“, “portatori” di handicap …
Su questa difficoltà di linguaggio, nei giornalisti e dunque nei cittadini, si è soffermato Carlo Bartoli. “Non è estetica del linguaggio, ma sostanza – ha premesso – e se le parole non sono mai neutre è giusto capire come si evolve la sensibilità delle persone quando si devono raccontare storie con persone disabili”.
E Iacopo Melio cosa ha detto? Intanto ha parlato poco. Poi ci ha ricordato come parlare di disabilità faccia “paura”. Ma ha soprattutto insistito su un aspetto, valido per giornalisti e per cittadini: la necessità di ascoltare (“sarebbe già un enorme passo in avanti”) chi ha menomazioni, disabilità, handicap. E a un certo punto ha tirato fuori quella frase (“Chiunque ha i suoi acciacchi, chiunque ha i suoi punti di forza”) seguita da un’altra (“Il giornalismo dovrebbe sostenere che le salite e le discese sono per tutti”) che meritavano il pomeriggio.
Un invito anche per una categoria che, in generale, ha difficoltà nel raccontare le fragilità e le normalità della vita di ogni giorno mentre potrebbe trovare una ri-legittimazione anche dal dare, a queste, uno spazio sottratto a chi, già potente di suo, non ha problemi nel condizionare le agende mediatiche: le fragilità che interessano persone “disabili” ma pure quelle che riguardano persone “non disabili”. Un po’ come, anche nel giornalismo, si possono imparare tante cose dai bambini (gli esseri “fragili” per eccellenza).
Intrigante – e magari, per qualcuno, non perfettamente calzante – l’esempio finale di Melio. Sulle “altalene per disabili” che scuole e Comuni tendono ad acquistare evidentemente in una fede più che buona. In realtà – ha detto – sono “gabbie” dove il bimbo in carrozzina viene inserito finendo così per giocare da solo. E pensare – ha aggiunto – che con gli stessi soldi si potrebbero comprare semplici giostre, di quelle “normali”, dove i bimbi in carrozzina potrebbero montare insieme a quelli senza la carrozzina. Per giocare insieme.