Di quel post su Facebook (“Le croci sui crinali”) conosco bene l’autore. Possiamo pure dire che con lui, Federico Pagliai, bravo scrittore di cose montane, serio conoscitore di vette e crinali, boschi e torrenti, siamo amici. Uno come lui è bello averlo per amico. Anche perché, spesso, tira fuori pensieri, sulla natura e sull’uomo, che ti obbligano a riflettere.
In genere mi trovo d’accordo con Federico, direi sempre quando difende la bellezza e l’identità delle terre alte. Adesso, sulla croce, ha scritto una opinione su cui mi piace essere un pochettino (ma poi, alla fine, mica tanto) in disaccordo.
A differenza mia, che di montagne e di camminate preferisco parlarne … da qualche divano, lui i monti li frequenta. I boschi li pratica. I funghi li trova. I montanini li conosce e li racconta. Le camminate le fa: e non solo quando sorella terra ci fa la cortesia di stare in piano.
In giorni natalizi, dopo aver trovato un Natale autentico nelle stradine deserte di Lucchio, borgo appenninico quasi abbandonato, gli è venuto di riflettere sul senso delle tante croci (immagino anche delle tante “madonnine”) che si trovano sulle vette e nei sentieri di montagna.
Sposa la tesi, Federico, che la croce è “simbolo cristiano” (e dunque emblema di parte) mentre “la montagna è patrimonio dell’umanità, tutta !!!”. Precisa di “rispettare” i credenti (“ancor più chi crede senza imporre una fede piuttosto che un’altra”) arrivando alla conclusione che “la religione che divide i popoli stride con la mia concezione di montagne che uniscono e mai separano” (Fede, tu certo sai che Cristo Gesù non è l’origine di una religione che divide. E’ proprio il contrario, almeno nelle Sue intenzioni. Poi, con i secoli, talvolta siamo stati noi, “cristiani”, a dimenticarlo. Ma il “capo” è di un’altra pasta).
Per Federico i crinali dovrebbero essere “liberi” (liberi dalle croci).
Non è, a leggere bene, una posizione del tutto negativa. Lascia aperta la possibilità che esista “un Dio”. Ricorda che lassù, sui monti, “c’è (comunque) una spiritualità integrale” che prescinde dai “distinguo di fede religiosa”. Non critica, né tantomeno offende, chi, “se ne sente il bisogno”, intenda “pregare il suo credo. In silenzio e senza simboli”. Ma per Federico i crinali dovrebbero essere “liberi” (liberi dalle croci).
Un post che sfida tutti, credenti o meno, cristiani o meno, praticanti o meno che noi possiamo essere. Interessante il confronto che sul post si è sviluppato: non mancano né “talebani” né riflessioni acute.
Sono (un pochettino) in disaccordo, col mio amico scrittore. In terre come le nostre, qui in Italia e direi in una Europa che ormai se ne frega di tutto, la croce – che rimanda alla apparente sconfitta del Figlio di Dio ma anche alla quotidiana pena di tanti uomini e donne in tutte le epoche storiche – è diventata qualcosa di “ulteriore”: simbolo di sofferenza ma pure segno di riscatto.
Raggiunta su una cima, una croce arrugginita può certo favorire un’antica preghiera (ammesso che fra qualche tempo l’Italia post cristiana ricordi ancora l’abc di un “Padre Nostro” o di una “Ave Maria”), ma può anche facilitare riflessioni meno ingabbiate da una “fede religiosa”, in questo caso il cristianesimo. Anche gli uomini e le donne di buona volontà possono aver bisogno di un simbolo.
Possiamo pure fare una legge – e magari presto ci arriveremo – che obblighi ad abbatterle, quelle croci. Per poi magari distruggere edicole sacre o campanili. O per trasformare in ristoranti e discoteche chiese sempre più dismesse, monasteri sempre meno abitati, cappelle sempre più abbandonate. Da qualche parte, anche vicino al nostro Paese, nel dopoguerra ci provarono: poi è finita in quel modo. Ovvio che Pagliai non vorrebbe questo (lo conosco bene per essere sicuro che se mai approvassero quel tipo di legge lui sarebbe il primo a fare obiezione di coscienza).
In ogni caso, quelle croci in ferro su quelle cime hanno, con l’ambiente, una coerenza talmente forte che se non ci fossero saremmo tutti, credenti o meno, assai più poveri. Oggi i simboli vincenti sono altri: stanno nei centri commerciali e sono tutti “orizzontali”; la nostra laicità, quella che troppo spesso ormai prescinde dalla dimensione “verticale”, non si vergogna di inchinarsi a essi.
Sui monti fra Pistoia e Modena (corretto, nda) c’è uno spazio – e Federico assai bene lo conosce – da sempre appellato a una croce. Ricordare quel nome, tenerlo presente ad esempio nelle “battaglie” assai poco religiose fra “presepio si/presepio no”, farebbe bene un po’ a tutti: rimanda al fascino del mistero, all’ambiguità del segreto, alla bellezza dell’incomprensibile. Oltretutto è un valico, cioè uno spazio dove è facile passare, scavalcare frontiere, incontrare persone diverse. Federico: tu sai bene come si chiama. Si chiama “croce arcana”.