Che fine ha fatto la “consultazione pubblica” che MISE (Ministero Sviluppo Economico) avrebbe dovuto avviare in vista dell’affidamento, alla Rai, della concessione per il servizio pubblico radiotelevisivo e multimediale? Già: che fine ha fatto?
La cosa sicura è che siamo in netto ritardo visto che, come noto e salvo proroghe dell’ultimo momento, la concessione scadrà il prossimo 6 maggio. Per mesi siamo stati bombardati, a qualunque ora, dal mitico spot (di stampo propagandistico, secondo molti) per ricordarci che il cosiddetto “canone Rai” lo pagheremo meno e, da luglio, nella bolletta con cui paghiamo l’energia elettrica. Pare che anche a quest’ultimo proposito non manchino problemi tecnici e vedremo come saranno risolti. Ma nessuno ci ha informato, come cittadini utenti del servizio pubblico radiotelevisivo, attorno a questo obbligo che la recente legge di riforma della Rai (legge 28 dicembre 2015 n. 220) affida al Ministero. Un obbligo doppio: alla “consultazione pubblica sugli obblighi del servizio pubblico” stesso e a garantire “la più ampia partecipazione”.
Al recente congresso nazionale Ucsi (Matera 3-6 marzo) la questione è stata ricordata, in apertura, da due intervenuti: Vittorio Di Trapani segretario Usigrai (sindacato fra i giornalisti dell’azienda cui fino a ora è stata affidata la concessione) e Franco Siddi consigliere di amministrazione Rai e, in un passato recente, segretario nazionale del sindacato unitario fra i giornalisti.
La questione è stata poi indirettamente ripresa anche nel documento finale del congresso dell’Unione fra i giornalisti cattolici che ha eletto in Vania de Luca (vaticanista a RaiNews24) la sua nuova presidente. Ucsi è infatti impegnata a confrontarsi anche “sui valori pubblici della comunicazione con particolare attenzione alla riforma Rai”. Non sono mancate, a Matera, voci su un possibile ruolo proprio di Ucsi nell’entrare, portando le voci di iscritti e simpatizzanti, ma perchè no anche di cittadini – nella “consultazione pubblica” sul futuro della concessione, e dunque della Rai, quando questa sarà finalmente indetta e regolamentata.
Il rischio, evidente, è che tutto finisca in una inutile bolla para-burocratica, in un esercizio formale e formalistico con interventi, nella migliore delle ipotesi, di qualche “addetto”, esercitazioni retoriche o strumentali, nella sostanziale indifferenza dei fruitori finali di quella specifica concessione: i cittadini. Quei cittadini, cioè, che pagheranno (vedremo come) un “abbonamento” e che dunque, in una democrazia matura, dovrebbero essere i primi – in quanto ciascuno di loro “micro-azionista” dell’azienda, proprietario collettivo di un bene comune – a esprimersi sugli obblighi da inserire nella convenzione fra Rai e Stato: obblighi, in primo luogo, di “qualità” perché sono molte, e chiare, le sentenze della Corte Costituzionale che ricordano come la giustificazione di tale “canone” risieda solo nella capacità dell’azienda a fornire una risposta adeguata e moderna, in termini di qualità, pluralismo e completezza. Ciò a 360 gradi: nella parte riguardante l’informazione giornalistica e in quella attinente a tutto il resto.
Nell’era di una economia “sharing” – e, dunque, di forme sempre nuove per condividere stili di vita alternativi a un neoliberismo sempre più ingiusto e inefficace – possiamo ancora permettere che a farla da padrona, anche nel servizio pubblico radiotelevisivo per cui non paghiamo solo i ricavi delle pubblicità ma versiamo pure un abbonamento annuo, sia uno “share” basato solo sulla “quantità” ? Questioni complesse, certo. Ma da non lasciare solo alla responsabilità, e alle scelte, di pochi.
RAI: “CONSULTAZIONE PUBBLICA” CERCASI