Politico romano (ma della Roma di qualche secolo prima rispetto a Cristo, non di 24 secoli circa dopo) Furio Camillo – e mi spiace non poco, sia per lui ma soprattutto per me – è, per quanto mi riguarda, un perfetto sconosciuto. Ma ieri, a Roma, me lo sono trovato in mezzo almeno due volte: sottoterra e in superficie.
Prendere la metro nella capitale, per me che sono nato in montagna e vivo orgogliosamente in campagna, è sempre un’avventura. Ieri dovevo farlo, da Termini, in direzione Cinecittà per raggiungere la sede non centrale di una associazione, che frequento, impegnata nel bilancio.
Scendo in quei sotterranei che potrebbero comunicare, come in tante altre città del mondo, efficienza e modernità, bellezza e senso comunitario, ma che qui comunicano sporcizia e timore, degrado e cattivo odore. La solita fiumana scende a Termini liberando perfino tanti posti a sedere, in direzione Anagnina. Tutto pare filare liscio, rumore e sporcizia a parte.
Vedo perfino una ragazza che mi pare identica al nuovo sindaco: guardo meglio, pensando che bello un sindaco in metropolitana, ma ovviamente non è lei. Tutto procede veloce. Fino, appunto, a Furio Camillo (inteso come fermata).
I vagoni fermano e non ripartono. Una decina di minuti di sosta e arriva la voce: ci scusiamo per il disagio, c’è stato un incidente, stiamo provvedendo per un servizio sostitutivo di bus. Qualcuno pensa a qualche minaccia para-terroristica, in realtà si scopre che uno, più avanti, è finito – o si è buttato – sotto un vagone della metro.
Centinaia di persone fiondate sulle scale mobili per risalire in superficie. Nessuno, fra i romani, certo più navigati di me, pensa davvero che ci siano già le navette. In effetti non ci sono. Ed ecco il Furio Camillo in superficie: fermata ATAC con tre linee (650, 590 e 671). Stiamo alle 15: il sole picchia.
Ne passa subito uno, di mezzi, preso d’assalto. Rinuncio a satana, per aspettare quello dopo. Peccato che una mezzoretta dopo non sia ancora passato.
Inutili i tentativi di fermare un taxi: quelli che passano o sono occupati ma da fuori non si vede (non ho mai capito perché non mettano, visibili, le lucine: rossa e verde. Boh) o sono liberi ma qualcun altro deve averli chiamati. Finalmente passa un mezzo ma non è quello giusto per avvicinarsi al “dove devo andare per andare dove devo andare”.
Lo prendo comunque e scendo in una piazza dove presumo ci sia una fermata taxi. In effetti c’è, ma i taxi no. Dopo un po’ ne arriva uno, scalcinato ma con autista estroverso (senza navigatore, perché giorni fa, glielo hanno rubato: sostiene che il navigatore migliore – “anche per far funzionare il cervello” – è un libro con lo stradario di Roma). Finalmente arrivo a “dove devo andare”.
E quando, ore dopo, l’assemblea è finita la metro è ancora bloccata. Per tornare a Termini un’anima pia mi accompagna con una macchina di quelle da città (giustamente già parecchio ammaccata così a nessuno viene in mente di rubarla), in zona Prenestina, dove c’è un vecchissimo, arrugginito, decisamente sporco, ma non privo di un suo fascino, tram verde con sopra scritto “Termini”. Dalla macchina ammaccata ho tempo di vedere almeno una dozzina di quelle famose “buche” da cantieri mai finiti: qualcuna somiglia davvero a una voragine.
In tutto questo girovagare faccio in tempo a vedermi confermato (e le zone che ho visto non sono neppure le più periferiche e le più disagiate) in una piccola sicurezza: non sono fatto per abitare in una città piccola, figurarsi a Roma e figurarsi in uno di quei tanti palazzoni, affollati e respingenti, che ho visto dal basso.
Con il massimo rispetto per il grande Furio Camillo (dittatore che, per inciso, a un certo punto fece arrabbiare i romani per un comportamento giudicato megalomane), meglio vivere.