Quando Mansueto Bianchi fu scelto per venire vescovo a Pistoia, in una situazione diocesana che definire complicata è davvero un eufemismo, dirigevo l’ufficio comunicazioni sociali. E ho continuato a farlo per quasi tutto il tempo del suo incarico pistoiese, fino a quando non ritenni di presentargli dimissioni motivate dal lungo (più di 20 anni) periodo passato in quel particolare ambito, periodo condiviso con due ottimi colleghi: Sara Bessi e Maurizio Gori.
Con lui, con questo vescovo dal nome singolare, da subito il rapporto fu facile. Ci sentivamo quasi ogni giorno e per me fu semplice accorgermi della fiducia, sempre unita a un sottile filo di ironia, che mi accordava. Gli piacevano le battute. Riceverle ma anche farle. Sapeva scherzare. E sarebbe certo stato d’accordo con quanto detto ieri, da Papa Francesco, circa l’importanza di non perdere mai il senso dell’umorismo (“perché è l’atteggiamento più vicino alla grazia di Dio“).
Il suo rapporto con i media, dalla carta stampata all’emittenza radiotelevisiva (non era scoppiata la mania dei social), era immediato: sapeva come stare davanti a un microfono, aveva i tempi giusti e anche quando il microfono stava in una chiesa, sapeva farlo diventare strumento di bella comunicazione. Una voce potente (più volte mi trovavo a collegarla con quella del primo papa Giovanni Paolo) per parole che arrivavano giuste, toccavano. Anche chi non aveva il dono della fede.
Rispettava il lavoro di chi, giornalista, era chiamato a servire la Chiesa proprio sulla frontiera dei media e dell’informazione giornalistica. Rispettava, apprezzandone il ruolo, i giornalisti esterni. Nel giorno del patrono dei giornalisti, ci eravamo inventati un format (“Colazione con Mansueto“) riunendo i colleghi delle testate operanti in città. Non l’ho mai visto né infastidito né sorpreso dalle domande – libere – che i colleghi, in quelle occasioni e in altre, gli rivolgevano.
In una assemblea di lavoratrici che occupavano il loro call-center in crisi, ricordo sempre le lacrime che vidi sul viso di una donna. Forse aveva fede o forse no, ma il vescovo Mansueto la corda giusta, per lei e per le sue compagne preoccupate di perdere il lavoro, l’aveva trovata.
Quando, nel quarratino, accadde un bruttissimo caso di cronaca nera che coinvolgeva un sacerdote, seppe fornirci quelle indicazioni, certo non di dettaglio ma sufficienti, che consentirono di non sbagliare a chi in quei giorni si trovò, dal punto di vista della diocesi, ad affrontare il circo mediatico con inviati nazionali di tante testate.
Non gli mancarono – la storia è nota – difficoltà “ambientali” in una diocesi abbastanza nota per riuscire a restar spesso fedele a contrapposizioni partigiane dall’antica tradizione guelfa/ghibellina. Ne soffrì non poco. Anzi: ne soffrì parecchio.
Fa bene la diocesi – con il suo conterraneo, amico e successore Fausto Tardelli – a presentare un libro (“Matteo: la storia di uno sguardo”) con alcune catechesi di Mansueto, in particolare ai giovani. Ricordo quei momenti di entusiasmo: si collaborava bene con il direttore della Pastorale Giovanile del tempo, Edoardo Baroncelli. E anche con i giovani “il ragazzo Mansueto” giocava bene.
A me resta un solo rammarico: non essere andato mai a trovarlo sul letto della grande sofferenza. Pensando sempre di andarci, ma rinviando sempre quel percorso e sapendo come fosse capace non solo di sorridere ma anche di ridere, mi ero addirittura preparato qualche battuta: per ridurre l’imbarazzo, per dare un senso diverso ai tristi convenevoli che si fanno sul letto di un malato.
E quando Francesco – il papa che lo aveva voluto come assistente ecclesiastico generale di Azione Cattolica – di lui, morto, disse che se n’era andato “un nonno dal nome bello” a cui anche lui aveva voluto “tanto bene“, non mi meravigliai.
Mi tornò in mente la gioia di quel 13 marzo 2013 quando, appena eletto Francesco, gli telefonai per capire chi mai i cardinali avessero scelto, chi fosse quel cardinale dal nome italiano e se lui, vescovo, volesse dire “una battuta” ai media locali. “Al collo porta una semplice croce in ferro, di quelle che per comprarla bastano pochi euro. E questo – mi disse – è un gran bel segnale“.