Pavana, il paese di Francesco Guccini, celebrato in questo “Tralummescuro. Ballata per un paese al tramonto“, dista pochi chilometri dal paese in cui sono nato io. Per arrivarci, da San Marcello Pistoiese, si sale l’Oppio e si scende verso il paese dove stava la grande fabbrica che, producendo anche munizioni, dette lavoro all’intera montagna: arrivati a Pontepetri si gira verso Pracchia e da lì, costeggiando un notevole cammino ferrato lungo il fiume Reno, c’è una strada (la traversa Porrettana) che mi è sempre piaciuta un sacco. Piena di curve. Con il tempo molte le hanno allargate. Piena, ancora, di fascino.
Subito dopo Pracchia, una deviazione sulla sinistra porta, in salita, all’Orsigna (che non c’è troppo bisogno di ricordare il grande giornalista/scrittore qui capace di trovare sosta. Compresa quella eterna). Ma proseguendo la “traversa”, dopo pochi minuti di curve e controcurve, in un paesaggio incontaminato, finita subito la Toscana e iniziata almeno sulla sinistra l’Emilia, fra paesini e case sparse, si arriva alla Venturina. O meglio al Ponte che prende quel nome.
Girando sulla sinistra, subito dopo arriva Porretta. Girando sulla destra, la strada rientra in Toscana e porta a Pistoia. Pavana è il primo paese. Quello di Guccini.
lo consiglio davvero il “tralummescuro” gucciniano. Titolo che rimanda a quel particolare momento di ogni giornata compreso fra la luce e il buio, altrimenti detto “imbrunire”. E’ un composto dialettale, nella particolare lingua di Pavana su cui Guccini già in passato si è esercitato e che anche in questo testo forma oggetto di una specifica appendice (“Voci del testo chiarite al popolo“).
Titolo che ottimamente si riferisce a un paese, a una comunità, davvero “al tramonto”: la Pavana di Guccini, certo, ma anche le tante “Pavana” sparse in questo Appennino di frontiera fra Pistoia e Bologna, Pistoia e Modena. E molto più in generale all’Appennino intero.
Racconta, il quasi ottantenne Guccini, un sacco di roba su Pavana e dintorni. Parla della sua esperienza di bambino, di adolescente. E di cosa facevano, provavano, suoi conoscenti nati con lui o anche prima. Oggi tanti di loro non ci sono più. Riposano nel cimitero di paese.
Ed è il “cantautore poeta e scrittore, mito per generazioni di italiani” (così la controcopertina) che si incarica di raccontarci come scorreva la vita di una comunità allora viva. Racconta il fiume e gli animali, il cibo e le feste, la scuola e i divertimenti, la chiesa e le tradizioni, le case del popolo e quelle chiuse, i ragazzi e ragazze, i villeggianti, le terme, gli alberghi e l’ospedale, chi c’era e oggi non c’è più.
Operazione nostalgia? Sotto certi aspetti si. Ma una nostalgia diversa. Operazione scritta bene. Inframezzata da termini dialettali (anzi: in “italiano pavanese“). Talvolta ci si perde, fra toscanismi e, soprattutto, emilianismi. A rendere il senso di ciò che Guccini intende dire non mancano – anzi, per fortuna, sono frequentissimi – intermezzi ironici, sfottò, voglia di sorriderci sopra. Bella la copertina, da una tela di Gino Covili.
Chissà se per le tante Pavana sparse in Italia l’imbrunire, oggi sempre più vicino alla notte buia, sarà poi seguito dal ritorno di qualche forma di luce. Chissà se di quei tetti – che oggi “non fumano più perché non c’è più nessuno, non c’è più vita” – resterà solo il “ricordo” oppure capiterà qualcosa per cui, finalmente, il Paese intero si accorgerà di quanto folle sia spegnere quelle luci. A Pavana e non solo a Pavana.