Leggere il libro di Michele Gesualdi (“Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana”, Edizioni San Paolo 2016) vuol dire provare voglia di ritornarci, a Barbiana. Il libro, prefatto da Andrea Riccardi e postfatto da don Luigi Ciotti, si fa leggere con facilità: grande cosa quando un libro lo leggi … facile. Contribuisce a rinforzare la memoria, la passione per questo giovane prete spedito in una parrocchia che neppure ci stava sulla cartina geografica: in mezzo a una montagna poco abitata, un luogo da lupi si sarebbe detto, dalla quale il cardinale aveva già deciso di togliere ogni parroco. Salvo poi mandarci uno come don Lorenzo.
Quel 7 dicembre 1954 quando don Lorenzo, l’Eda e la Giulia lasciarono San Donato per salire a Barbiana, era una “giornata umida e piovosa che metteva tristezza”. Tornando a Barbiana in un lunedì d’inverno così tanti anni dopo, non è difficile trovare analoga umidità: provando una tristezza che fa intuire, ma solo da lontano, quella che sarà stata, quel giorno, la tristezza di don Milani.
Gesualdi racconta quel viaggio. Su camioncino fino a Vicchio. Con macchina pubblica fino a dove la strada teneva un po’ di asfalto. A piedi, da solo, verso la chiesa nel bosco. “Mentre cammina verso la sua chiesa, lotta in solitudine con la sua coscienza. Nel frattempo il cielo si oscura e si scatena un violento temporale. Arrivò che era quasi buio, bagnato e infreddolito. Non c’era nessuno ad accoglierlo. Entrò in chiesa, si inginocchiò nell’ultima panca vicino alla porta, pregò con la testa fra le mani”.
Adesso ci sono tornato, a Barbiana. Con in mente quelle parole scritte da uno dei ragazzi di don Milani: quello che da ultimo, sul letto di morte, gli sentì dire parole incredibili (“In questa stanza c’è un cammello che passa dalla cruna dell’ago”). Lo intravedo, don Milani, pregare nel freddo di questa chiesa. “Con la testa fra le mani“.
Non c’è nessuno, nella umidità di questo uggioso pomeriggio invernale a quasi 50 anni dalla morte del priore. Nessuno davanti alla chiesa che ospita il “santo scolaro”. Nessuno sopra, in canonica accanto alla scritta che ricorda “il contrario del motto fascista”. Nessuno poco più sotto nel piccolo cimitero, dove Lorenzo comprò subito, appena arrivato, lo spazio per il riposo eterno. Nessuno ai bordi della piscina scrostata che conserva il blu del cielo e un velo di ghiaccio. Nessuno sul sentiero infangato dove non mancano piccoli resti di neve. Nessuno a leggere i cartelli con gli articoli della nostra Costituzione che Benigni etichettò come “la più bella” per poi declassarla a “bellina”. Nessuno sotto la pergola, sotto i cipressi. Con l’umido che penetra le ossa, questo è proprio il tempo giusto per venirci, qui a Barbiana.
E mi scopro a pensare quanto sarebbe forte e bello se adesso, proprio adesso, vedessi arrivare Francesco, il papa che più volte ha ricordato don Milani. Con quella auto ordinaria che usa quando vuole “scappare”. Provando lui stesso, appena terminato l’asfalto, la sensazione che tutti proviamo imboccando il sentiero fangoso, o polveroso, che a un certo punto scompare e ti pare di finire dritto nel vuoto. Pochi metri in discesa ed eccolo, Francesco, accanto alla chiesa nella mitica, povera, inutile Barbiana lasciata, con grande saggezza, senza modifiche, senza strutture, senza santini, senza ciarpame. Essenziale e povera come era, per continuare a dimostrare la sua singolare potenza.
Lo vedo, Francesco, arrivare qui da solo. Senza codazzi mediatici. Punta dritto al cimitero. Scioglie la catena, entra. Prega sulla tomba del “priore di Barbiana dal 1954”. Prega sulle tombe di Eda e Giulia. Prega su quelle, poche, misere, rovinate, di antichi montanari sepolti nel loro bosco. E prega, certo, anche per chi don Milani non solo non lo capì ma anche lo umiliò.
Prima di arrivare – arrivandoci senza dire nulla a nessuno, nemmeno al cardinale, nemmeno a Michele – Francesco ha di sicuro letto questo ultimo libro di Michele. Si è commosso come mi sono commosso io e, credo, tantissimi altri. E adesso, compiuto il gesto dovuto, riparte, Francesco. In silenzio. “Data la piccolezza del popolo e la posizione scomoda della chiesa, un sacerdote valido a Barbiana non avrebbe lavoro adeguato”: così aveva scritto il cardinale, qualche anno prima quel lontano 1954, al rientro da una visita pastorale proprio a Barbiana. Per poi, per colpa di quel prete scomodo, cambiare idea: è in un posto “scomodo” che lo “scomodo” doveva andare.
Ieri l’ho davvero visto, papa Francesco, qui a Barbiana: raccolto su quel “seme di speranza” mandato a fiorire, e a rifiorire, proprio in questa piccola periferia montana. Impossibile non vedercelo.