E’ possibile che una città dal nome così evocativo (Prato) possa “rifiorire” prescindendo da quello che le sta intorno nella parte di territorio, chiamato Appennino, che sale e subito diventa montagna? Possibile che una “rifioritura” analoga possa capitare nella vicina, e un tempo rivale, Pistoia? Possibile che la città del fiore per definizione, Fiorenza, possa trovare un equilibrio, fra ciò che la rese grande e ciò che oggi la uccide, prescindendo anch’essa dai monti che le fanno corona?
Pensavo a questo, giorni fa, ascoltando ottimi relatori a un convegno (“Tessere per la felicità”), uno dei pochi che mi sono stati davvero utili, pensato “per-mettere relazioni e arti” e dunque per aiutare il futuro di una città complessa e affascinante come Prato.
Moderati da Gianni Rossi, direttore della tv locale, e introdotti da Roberto Macrì, ex sindacalista oggi presidente di una importante fondazione cittadina (“Opera Santa Rita onlus”) cui si deve l’input di una iniziativa che sarà lunga almeno un anno, si sono confrontati una artista, un politico e un monaco. Intrigante il titolo (“Abitare la città, sviluppo urbano e marginalità esistenziali”) su cui tre pratesi molto diversi – la cantautrice Erika Mineo, in arte Amara, l’assessore comunale all’urbanistica Valerio Barberis, l’abate di San Miniato al Monte dom Bernardo Francesco Gianni – hanno ragionato nel primo di quattro momenti (la città, le parole, il mercato, la tecnologia) pensati per mettere giù qualche idea verso “una rinnovata fioritura della città”.
Giustamente l’assessore all’urbanistica ha introdotto con un dato di fatto. Incontrovertibile. Dal 2007, in tutto il mondo, la popolazione che vive nelle città ha superato quella che vive negli altri territori e questo pare essere il “destino” per il nostro futuro. Se così è, allora bisogna attrezzarci a renderli più vivibili questi agglomerati urbani sempre più grandi, complessi, tendenzialmente invivibili perché sempre meno “felici” e sempre più preda di “paura”: per restituire “tessere di felicità” occorre lavorare sul concetto, molto caro a tanti, di “comunità”.
Giusto, vero, utile. Ma siamo proprio sicuri che quel “destino” (l’assessore ha usato più volte questo concetto) sia così inevitabile? Troviamo logico – almeno noi, qui in Italia – il fenomeno conseguente a tale tipo di (inevitabile?) urbanesimo, cioè l’inevitabile spopolamento di quella fascia interna, l’Appennino, che da sempre cuce la lunghezza del Paese?
E’ logico pensare di salvare le periferie cittadine un po’ come è stato fatto con il modello degli outlet lungo le nostre autostrade? Costruire finti villaggi che, per vendere a prezzi all’apparenza più contenuti, hanno contribuito ad uccidere i villaggi veri, è il modello giusto per vivere il nostro futuro?
E’ umano, fonte di felicità, pensare luoghi in pianura sempre più affollati, con centri sempre più abbandonati da persone vere che invece abitano periferie così spesso anonime? E’ normale, per limitare le paure derivanti da quell’anonimato, inventare modelli di “comunità” sottratti ai piccoli centri, esempio quelli del nostro Appennino – dove la vita comunitaria non doveva essere inventata perché, con tutti i suoi tanti limiti, era naturale – che così diventano sempre più luoghi fantasma?
Non è lo stesso sviluppo tecnologico, quello che in teoria abbatte le distanze, che potrebbe aiutare a invertire esodi e affollamenti riequilibrando presenze su un territorio che, per nostra fortuna, il Creatore ha voluto bello e complesso, fatto di pianure ma anche di terre alte?
Se in città sempre più sterminate (anche se da noi, in Italia, saranno comunque impossibili le megalopoli da decine di milioni di individui) la condizione naturale – quella da sconfiggere con logiche, appunto, “comunitarie” – è la paura nelle sue tante declinazioni iniziando dalla paura per il “diverso da noi”, siamo sicuri che aderire al modello più facile (quello che obbliga allo spopolamento zone sempre più vaste del territorio. O alla loro “disneylandizzazione”, al gigantesco parco-giochi da usare poche ore) sia la strada più intelligente?
Sopra la città, ormai unica, che attraverso Prato unisce Firenze a Pistoia, terre alte vivono un presente di spopolamento per un futuro che sembra parlare la lingua di un abbandono pressoché totale. Sicuri che il “destino” sia quello? Può Prato pensare al suo futuro di città così multietnica prescindendo dalla sua “vallata”? Può Firenze affrontare le sue contraddizioni di città uccisa dal cattivo turismo lasciando perdere quelle montagne che la circondano? E può Pistoia, città di treni e vivai, continuare a fregarsene del suo Appennino?